Ad Artissima 2016 un viaggio “onnicentrico” tra oggetti estrapolati dal loro contesto ordinario Tiziana C. Carena Si è svolta dal 4 al 6 novembre la ventitreesima edizione di “Artissima”, sempre all’Oval del Lingotto Fiere di Torino, appuntamento internazionale di arte contemporanea che aveva come tema la “performatività”. Identità di sperimentazione, innovazione e qualità […]
Ad Artissima 2016 un viaggio “onnicentrico” tra oggetti estrapolati dal loro contesto ordinario
Tiziana C. Carena
Si è svolta dal 4 al 6 novembre la ventitreesima edizione di “Artissima”, sempre all’Oval del Lingotto Fiere di Torino, appuntamento internazionale di arte contemporanea che aveva come tema la “performatività”.
Identità di sperimentazione, innovazione e qualità per unire una progettualità globale, alla forza della sua specificità locale – così Sara Cosulich presenta “Artissima 2016”: il nucleo basilare di questa identità va ricercata nel lungo processo che ha portato l’esperienza estetica occidentale a configurarsi come pura espositività. Qualsiasi “cosa” posta spazialmente in posizione tale da attrarre l’attenzione è configurabile come oggetto estetico. Estetico è l’atto dell’esporre, più che la natura dell’oggetto esposto. Una antica eredità futurista: “la vita sente la forma in quanto tale come qualche cosa che la opprime” per usare l’espressione del filosofo tedesco Georg Simmel nel Conflitto della cultura moderna del 1918.
E allora la vita si volge alla performance L’oggetto viene estrapolato dal suo contesto ordinario e situato in uno spazio altro, una sorta di palcoscenico, esposto alla vista; acquisisce una dimensione eidetica, che ne rivela l’essenza: il suo essere nulla senza il suo originario contesto, la sua solitudine, la sua paradossalità, una volta estromesso dal contesto vitale che, originariamente gli apparteneva.
L’atto di forza con cui esso è proiettato nella dimensione della espositività sorprende il visitatore, come lo soprende l’inconsueta presenza di un oggetto fuori luogo.
La mostra è “onnicentrica”: si può cominciare la visita da qualsiasi punto, perché la disorganizzazione dello spazio e la sua riorganizzazione in funzione di ogni oggettualità esposta non soltanto lo permette, ma, quasi incoraggia a farlo.
Nel Book Corner viene presentato il volume Salvo con Enzo Cucchi, artista, e Alessandro Cucchi, curatore del volume edito da NERO. Dalle forme distolte dal loro luogo abituale alla parola poetica che, quasi per definizione, è “extra-vagante”: “Per vincere la malattia bisogna partirsene via”; proprio nel viaggio è il rimedio, il salvataggio. Qui l’essere fuori dal proprio luogo è la salvezza, come sembra essere la salvezza l’estrapolare gli oggetti dai loro contesti alla ricerca di una essenzialità forse irraggiungibile.
Il soffietto non è un soffietto
O raggiungibile con risultati paradossali: che essenzialità rivela, infatti, un soffietto ripiegato?
Come può un oggetto estrapolato dal suo contesto ordinario porsi come “arte”? È sufficiente pensare che ars (come il greco téchne) è l’insieme di strumenti rivolti a ottenere un effetto. Vogliamo ottenere la contemplazione di una cosa? Poniamola fuori del suo posto ordinario. Quell’oggetto spaesato parlerà alle nostre ansie, alle nostre angosce, non meno che alle nostre gioie per la liberazione dal tempo ordinario in uno spazio in cui si vede e niente di più. Ma pensiamo al famoso Questo non è una pipa di Michel Foucault (1973): una pipa enorme e, accanto il dipinto di un quadro su un cavalletto raffigurante una pipa con la scritta, sotto “questa non è una pipa”. “Ciò che mi sembra assai dubbio è la semplice opposizione tra il fluttuare incollocabile della pipa in alto e la stabilità di quella in basso”. Infatti la pipa in basso è raffigurata come una raffigurazione della pipa in alto che, però, è anch’essa una raffigurazione.
Un oggetto, un soffietto per bus, selezionato da Simon Callery e Finbar Ward (Simon Gallery London), non è un soffietto, anche se ne ha tutta l’apparenza o, forse, lo è stato: un soffietto sarebbe al suo posto su di un autobus di linea, collegherebbe due vetture; ma che cosa potrebbe mai collegare qui, addossato al muro, ripiegato su sé stesso come un lontano ricordo della sua funzione originaria? La sua inutilità nella vita quotidiana ne ha fatto un oggetto estetico, o forse teoretico, di contemplazione disinteressata.
Oppure: un oggetto non identificabile composto, come quello qui riprodotto, di parti relativamente identificabili, ignoto, dunque e, insieme, noto.
Il trolley di Babak Golkar, esattamente come la pipa che non è una pipa, diventa un oggetto estetico proprio perché non è presentato nella performance come trolley, ma come oggetto di contemplazione.
Proprio questa è la performatività che traduce l’ordinario nell’estetico e nel teoretico togliendo la funzionalità e immergendo l’osservatore in uno spazio in cui non dovrebbe meravigliarsi di veder vagare l’Odradek di cui parla Franz Kafka.
E ora, spazio alla percezione visiva……
(Tomio Koyama, “Artissima 2016”)
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