Un viaggio nella crisi sociale e ambientale
Giorgio Brizio, Non siamo tutti sulla stessa barca. Le sfide del nostro tempo agli occhi di un ragazzo, prefazione di Luigi Ciotti, Bra, Slow Food Editore, 2021, pp. 377.
(Nell’immagine di apertura, il riscaldamento globale del pianeta raffigurato dal progetto Show your stripes di Ed Hawkins – licenza Creative Commons — Attribution 4.0 International — CC BY 4.0)
“Non siamo tutti sulla stessa barca, ma dovremmo seguire tutti la stessa rotta, puntare tutti alla stessa mèta: libertà, dignità e diritti per chiunque abiti la terra, oggi e nel tempo a venire.” Così Luigi Ciotti, nella Prefazione (p. 13) indica il nucleo attorno al quale si avvolgono le argomentazioni dell’autore, diciannovenne, attivista per i diritti e studente presso l’Università degli Studi di Torino, corso di laurea in “Scienze internazionali dello sviluppo e della cooperazione.” Perché la questione di fondo è che noi, per usare ancora le parole di Ciotti, viviamo ancora entro un modello di sviluppo “svincolato dal rispetto dell’ambiente e della persona” (p. 13). La critica del presente è critica sistemica, dunque critica radicale.
Il volume si compone di sette capitoli: 1. “Il mare si alza”; 2. “The wawe”; 3. “Il confine più letale del mondo”; 4. “Non annegare”; 5. “Sardine”; 6. “Ultime spiagge”; 7. “Una barca che (ci) salvi tutti”. Concludono il volume i Consigli di lettura, per orientarsi nel vasto “mare” delle tematiche affrontate dall’Autore.
Un’esperienza personale
Il libro è la narrazione dell’esperienza di attivista dell’Autore, il racconto della sua esperienza di “temi tra loro fortemente interconnessi” e di come “non serva essere uno scienziato per contribuire a portare cambiamento (p. 15). Difficile darne un’idea senza rischiare di impoverirlo: in esso si intrecciano vissuto attivistico, sviluppo della consapevolezza sociale e dei connessi problemi ambientali abbracciati da una riflessione ‘a tutto tondo’. Intersezionalità è (p. 360) la parola e il concetto fondamentale del libro. Non meno fondamentale è l’invito alla divulgazione scientifica seria a opera dei competenti che fornisce ai militanti materia di riflessione e di azione. Divulgazione scientifica seria equivale a divulgazione scientifica non asservita a interessi economici, ma rivolta a contribuire al bene collettivo umano. E il primo esempio, non a caso, è quello del “Club di Roma” e di Aurelio Peccei: “Già agli albori del Club di Roma si era capito: questa volta siamo noi uomini a essere responsabili, in modo determinante, del negativo evolversi dei processi biologici, geologici e atmosferici che condizionano il clima” (p. 19).
Il capitalismo moderno alle origini della crisi
Il cambiamento climatico ha origine antropica, come attesta oltre il 97% delle ricerche, tutte sottoposte a peer review nella comunità scientifica, “dalle emissioni di gas serra, di cui quello maggiormente disperso in atmosfera da noi umani è l’anidride carbonica. Sappiamo che il 75% circa di queste emissioni a livello globale è dovuto alle combustioni fossili nei settori della produzione di energia, dell’industria e del traffico. Il restante 25%, invece, è dovuto a un cattivo uso del suolo, principalmente per deforestazione ma anche a causa di un’agricoltura non sostenibile” (p. 20). L’immane movimento storico che è iniziato con le “rotte triangolari” nel XVI secolo, con la manifattura e, poi, con l’industrializzazione e che, oggi, culmina nella digitalizzazione del lavoro è la causa dell’attuale degrado ambientale.
Il capitalismo moderno, la cui anatomia risale all’opera di Karl Marx e, poi, di Max Weber e di Werner Sombart, non ha soltanto sviluppato un sistema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma un sistema di sfruttamento della natura; la devastazione dell’ambiente è corsa in parallelo alla devastazione dei rapporti sociali. Va osservato che il discorso sviluppato da Brizio si intreccia virtualmente con le argomentazioni di Naomi Klein Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima (tr. it. Milano, Feltrinelli, 2019 e, naturalmente con le argomentazioni di Greta Thumberg: “Alcuni, certe aziende, certi specifici incaricati delle decisioni sanno esattamente quali valori inestimabili hanno sacrificato pur di continuare ad ammassare quantità inimmaginabili di soldi.” (citato da N. Klein, Il mondo in fiamme, p. 21). Il nucleo del problema sembra essere, dunque, l’aspetto fondamentale della modernità: l’economia capitalistica e la riduzione dell’uomo a homo oeconomicus e della natura a puro magazzino di “materiali” da incenerire per il profitto di pochissimi e per il disastro di tutti. Nel volume vengono passate in rassegna alcune delle più recenti ipotesi di riforma dell’economia capitalistica maturate proprio dalla presa d’atto della crisi climatica (pp. 74-76).
È la tendenza che conta
Di tutti: “Il rapporto (globale e indipendente) Climate vulnerability monitor ha stabilito che il cambiamento climatico è responsabile di cinque milioni di morti l’anno. Le vittime abitano principalmente in regioni del Sud del mondo ma tutti i paesi, senza eccezioni sono colpiti dai suoi effetti” (p. 31). Peraltro, “Non è il fenomeno estremo, ma la tendenza che conta” (p. 57): per rendersi conto della situazione occorre ragionare sulle statistiche, sulle medie e sul numero degli eventi in una determinata sezione temporale. E gli esiti di questi ragionamenti non sono confortanti. Di fronte a questa realtà nessuna efficace azione globale è stata iniziata, nonostante le non poche conferenze internazionali in materia. Questo perché, in materia, nessuna organizzazione internazionale ha, o sembra intenzionata a mettere in campo, un “potere cogente”, potremmo aggiungere.
Di fronte alle incoerenze dei “vecchi”, oggi, come nel 1965, si è levata la protesta giovanile; se allora, negli U.S.A., ai padri che avevano promesso: “Mai più guerre!”” si rimproverava di aggredire il Vietnam, oggi agli innumerevoli difensori ufficiali dell’ambiente (a parole) si oppone un altro movimento giovanile, globale, il Fridays for Future: “Sosteniamo che debbano pagare i costi della crisi coloro che negli ultimi decenni hanno favorito la sua avanzata, e ci hanno guadagnato. Vogliamo giustizia climatica, e ci battiamo per essa. […] Adesso” (p. 85). Una opposizione che “si manifesta in disobbedienza civile non violenta” (p. 105).
Il vero nemico è il modello di sviluppo
Non è possibile (né sarebbe utile) riassumere qui la massa di dati analizzati nel volume. È importante, piuttosto vedere quale sia l’effetto del disastro ambientale sul piano sociale e politico: “La crisi climatica dilata i divari e le disparità, con profonde conseguenze sociali: la perdita di risorse, le migrazioni, la dislocazione culturale” (p. 133). Migrare, non è, in questa situazione, una scelta: i violenti stravolgimenti climatici mettono nelle condizioni di non poter più vivere nelle proprie terre (pp. 137 ss.); “si stima che nei prossimi trent’anni 135 milioni di abitanti del Pianeta saranno costretti a lasciare la propria terra a causa del degrado delle terre e della siccità” (p. 140); inoltre, in Africa, “Tra il 40 e il 60 % degli scontri armati interni degli ultimi sessant’anni sono riconducibili alle risorse naturali, che hanno contribuito direttamente a scatenare conflitti in almeno 14 Stati fragili” (p. 141). Per il migrante che fugga da una situazione vitale impossibile, in Africa, non esiste tutela di diritti, soprattutto se viene a trovarsi nella Libia spezzata dalla guerra civile; e lasciatosi alle spalle, eventualmente, la Libia, lo attende l’alea del mare Mediterraneo e il rischio dei “respingimenti” da parte del primo paese di possibile approdo. Queste alcune delle conseguenze sociali e politiche del disastro climatico e dello sviluppo del “miglior sistema economico” possibile! Ben 79 conflitti vengono ricondotti a cause climatiche: il rapporto tra metamorfosi climatica e guerre, nell’Africa subsahariana si presenta come un monito severo: “Qualora i trend dell’aumento delle temperature restino invariati nel prossimo futuro, si stima un aumento del 54% nel rischio di scontri armati, e 393000 morti in conflitto, entro il 2030” (p. 154). Situazioni di questo genere potenziano la spinta a migrare anche “sapendo forse di morire”. Perché partono, allora? “Partono per quel forse” (p. 155). Ma tutto questo sfugge a chi misura ogni cosa in termini di P.I.L., trascurando altri indicatori che correlano andamento della produzione dei beni e maggior benessere dei produttori. Le responsabilità occidentali ed europee, in particolare (p. 234), sono pesanti per quello che riguarda il fenomeno migratorio e i suoi tragici esiti; a tentare di aiutare chi fugge dalla morte rischiando la morte vi sono quasi soltanto le ONG. Di fronte all’emergenza xenofoba, abbiamo una destra xenofoba e una sinistra “che non riesce a proporre una valida alternativa” (241). A destra si grida all’invasione; ma in Italia gli immigrati sono poco più di 5 milioni: nel nostro paese c’è uno straniero ogni 15 cittadini “e gli irregolari sono grosso modo uno ogni 110” (p. 251).
La pandemia “ha aperto il vaso di Pandora: dalla sanità al collasso al lavoro nero, dai tagli alla scuola ai cambiamenti climatici. Sono emerse le cose che dovevano cambiare e non sono cambiate, e le cause di molte altre che invece sono mutate” (p. 267). A questo punto il ruolo della politica sarebbe decisivo; la politica “è l’esatto contrario dell’indifferenza” (p. 271); ma il vero nemico non è la pandemia “ma il modello di sviluppo in cui è stato concepito, dove ha trovato facile diffusione” (p. 279). Le catastrofi stesse “hanno una qualità rivelatoria: ci rammentano la fragilità delle nostre architetture sociali e istituzionali, rendendo evidenti vulnerabilità fino a quel momento celate” (p. 344). Ma la crisi climatica va a intaccare “le fasce di popolazione dove la fragilità sociale è più ampia (persone che non hanno una cittadinanza, persone che vivono in assoluta povertà, persone che non sono in grado di difendersi)” (pp. 351-352). Clima e disuguaglianze sono, quindi connessi. Occorre, dunque intersezionalità: “unire le lotte per riuscire a scardinare modelli iniqui, dinamiche di oppressione e sfruttamento” (p. 359). Questione ambientale e questione sociale devono essere affrontate insieme: è il messaggio fondamentale del libro.
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