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Un’urgenza: la scienza unificata. Gli effetti sociali dell’Antropocene richiedono un sapere unitario

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 6 minuti

La comunità umana è non soltanto una “comunità di destino”, ma soprattutto una “comunità di pericolo”. La società moderna vive una crisi complessa e l’Anrropocne è anche un Thanatocene. Sul volume di Edgar Morin Risvegliamoci!.

“Chi discute dell’unità della scienza come compito possibile, muove dal presupposto che aumenti il lavoro comune, che il pensiero scientifico si affermerà nell’umanità progressivamente in tutti gli ambiti. Anche chi non può impegnarsi in questa fondazione, ma spera in essa, deve ammettere che si tratta di un fatto storico.” Così Otto Neurath nel saggio L’unità della scienza come compito, discorso tenuto nella prima conferenza del primo Congresso internazionale per l’unità della scienza, Praga, 31 agosto-2 settembre, 1934. Gli hanno fatto eco Daniele Conversi, nel volume Cambiamenti climatici. Antropocene e politica (Milano, Mondadori, 2022): data la sfida della complessità, “l’interdisciplinarietà è diventata un prerequisito essenziale, un sine qua non per l’avanzamento delle scienze naturali, come per quello delle scienze sociali e della stessa azione politica”.

L’interdisciplinarietà è l’unità del sapere scientifico, proprio perché, come spiega Conversi (p. 2), essa è “transdisciplinarietà” resa necessaria dall’unità complessa dell’oggetto: l’essere umano nei suoi rapporti con la biosfera e dalla piena consapevolezza che un modello preciso di produzione e di distribuzione della ricchezza minaccia tanto la “sociosfera”, quanto la biosfera; l’economia capitalistica finanziaria, come argomenta Naomi Klein nel volume Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima (tr. it. Milano, Feltrinelli, 2019) là dove scrive” se decidessimo di prendere sul serio il cambiamento climatico dovrebbero cambiare pressoché tutti gli aspetti della nostra economia, e invece sono troppi i potenti interessi costituiti che amano lo status quo” (p. 23).

La vita umana strettamente legata alla vita delle altre specie

Giorgio Brizio scrive: “La crisi climatica dilata i divari e le disparità, con profonde conseguenze sociali: la perdita di risorse, le migrazioni, la dislocazione culturale” (Non siamo tutti nella stessa barca. Le sfide del nostro tempo agli occhi di un ragazzo, Bra, Slow Food Editore, 2021, p. 133); aggiunge Serge Latouche: “la parola d’ordine della decrescita ha come oggetto soprattutto quello di sottolineare l’abbandono dell’obiettivo della crescita per la crescita, obiettivo insensato il cui motore non è altro che la ricerca sfrenata del profitto con una predazione illimitata della natura.” (S. Latouche, Invertire la rotta. Ecologia e decrescita contro le politiche autoritarie. Una conversazione con Franco La Cecla, Milano, Meltemi, 2017, p. 17).

Gli effetti sociali dell’Antropocene richiedono un sapere unitario per fronteggiare un rischio unitario: la minaccia multiforme alla vita della specie umana strettamente legata alla vita delle altre specie. Si potrebbe obiettare che proprio il neopositivismo di cui è stato banditore Otto Neurath ha fornito armi all’epistemologia che è alla base dell’aggressione capitalistica al mondo della vita; ma l’obiezione cadrebbe non appena si approfondisse l’insieme delle finalità sociali che il programma della “scienza unificata” si proponeva nella visione neurathiana (cfr. O. Neurath, L’utopia realmente possibile, tr. it. Milano, Mimesis, 2016): un controllo sociale dello sviluppo dell’economia funzionale ai veri bisogni dell’essere umano (e una critica ai bisogni meramente indotti).

Oltre la separazione fra scienze naturali e scienze dell’uomo

Ora, l’appello alla scienza unificata viene anche da un illustre pensatore, Edgar Morin, nel libro Svegliamoci! (tr. it. Milano, Mimesis, 2022). Quello che è fondamentale è che pensatori che non hanno niente in comune, per formazione, orientamento scientifico, epoche di vita, convergano nell’esigenza della unificazione del sapere scientifico, al di là della persistente separazione fra scienze naturali e scienze dell’uomo (erede della storicistica distinzione fra scienze dello spirito e scienze della natura).

Il libro di Morin (2022) guarda alla crisi mondiale del sapere dalla prospettiva francese; esso inizia con una osservazione, tratta da Ortega y Gasset, “Non sappiamo che cosa ci sta accadendo ed è precisamente quello che ci sta accadendo” e prosegue immediatamente con un’affermazione netta: “Dopo la rivoluzione del 1789 si sono succedute o sono coesistite due France: quella umanista e quella reazionaria.”

Affermazione che richiama alla memoria l’analoga tesi di György Lukàcs nel saggio La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi (giugno-luglio 1956) il quale così la formulava: “il progresso ci aiuterà a rafforzare la coesistenza e a favorire quel processo di differenziazione che sta attuandosi nel mondo borghese, anche all’interno della stessa borghesia” (G. Lukàcs, Marxismo e politica culturale, tr. it. Torino, Einaudi, 1973, p. 112).

Il nazionalismo nega, ignora o non si cura dei diritti umani

Il progresso è quell’insieme di processi che avvicinano al socialismo, la reazione quell’insieme di processi che ci allontanano dal socialismo (dove per “socialismo” si intende la piena realizzazione dell’essere umano, la società che può effettivamente mettere in pratica il motto “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, Marx, Critica del programma di Gotha, 1875). Prospettive lontane, prospettive da “guerra fredda” appena corrette dalla “coesistenza pacifica”, si potrebbe dire; ma non è così, perché se il socialismo reale è naufragato, non sono naufragate con esso le motivazioni che, ideologicamente, ne sono state il movente.

Le stesse motivazioni che Morin denomina “umanismo”. La Rivoluzione francese, scrive Morin, “pose all’origine della nazione un fondamento umanista e universalista con la dichiarazione dei diritti dell’uomo e un fondamento democratico con l’abolizione dei privilegi e l’introduzione, nel 1792, del suffragio universale (solo maschile)” (p. 13). Le guerre della rivoluzione hanno dato vita al patriottismo, “poi quelle del 1870 e del 1914-1918 l’hanno risvegliato, istigato, esaltato e…degradato a nazionalismo” (p. 15). Patriottismo e umanismo vanno insieme e “comportano la preoccupazione per il destino della specie”, non così il nazionalismo che incarna la mera “volontà di potenza” del tutto indifferente al destino della specie.

Sostanzialmente, mentre il patriottismo si radica nei diritti dell’uomo, il nazionalismo li nega, li ignora o non se ne cura. Dal nazionalismo derivano, infatti, la pulizia etnica, la colonizzazione quasi genocidiaria delle Americhe e dell’Australia, rispetto alle quali il nazionalsocialismo tedesco è soltanto una continuazione e un’intensificazione.

L’Antropocene è anche Thanatocene

Uno degli ‘indici’ dell’età moderna è lo sviluppo della scienza. Ma, contrariamente alle celebrazioni illuministiche del progresso scientifico, l’avanzare della scienza ha rivelato “la sua terrificante ambiguità” (p. 33), perché le forze possenti dell’industrializzazione rivolta al profitto, “guidata sia dalla frenesia del capitale, sia dalla volontà di potenza degli Stati” (p. 35) “dominano le menti umane che le dovrebbero dominare”. Sicché l’Antropocene “è anche il Thanatocene”. Questi sono i caratteri fondamentali di una crisi complessa: una crisi tipica delle società moderne che non offrono “stabilità e fissità alle proprie regolazioni” (p. 45) e delle quali la crescita è l’elemento regolatore; oggi, paradossalmente, “dovremmo fermare la crescita per salvare il pianeta e sostenere la crescita per salvare la regolazione delle società moderne.” (pp. 45-46). Le discipline specialistiche non possono fronteggiare la crisi: “Gli specialisti disdegnano ogni conoscenza globale, che considerano superficiale. Economisti e tecnici trovano certezza e compiutezza nei loro calcoli” (p. 47), ma la frammentazione e la separazione delle conoscenze rende unilaterale l’insieme delle loro conoscenze.

Centralità della mente umana all’interno dei processi sociali

Ogni crisi è ambigua: essa offre le possibilità tanto di progredire, quanto di regredire. Implicitamente, Morin fa propria la concezione dialettica della realtà, già sviluppata da Marx e da Engels, ma decurtata del proprio esito necessario; una dialettica senza sintesi, nella quale la sintesi deve essere portata dal soggetto umano, dal soggetto sociale, dal soggetto politico, in vista delle finalità umanistiche fissate in Francia nel 1789. Ma questo tipo di concezione implica “una razionalità aperta che riconosce le complessità” (p. 54).

La complessità è ben chiara di fronte a “progressi materiali formidabili e pericoli mortali dovuti a questi progressi” (p. 54), complessità che delinea una catena di incertezze, ma soprattutto la consapevolezza che la comunità umana è, ormai, non soltanto una “comunità di destino”, ma soprattutto una “comunità di pericolo”.

Occorre partire da un presupposto: “Tutto ciò che si gioca nell’ambito dell’economia, della politica, dell’azione, della società si gioca fondamentalmente e preliminarmente nella mente umana” (p. 57). Il che significa che abbiamo a che fare con una psicopolitica, con una psicoeconomia, con una psicotecnologia, le realtà conoscitive dell’Antropocene, la centralità della mente umana all’interno dei processi sociali; in questa dimensione “la potenza senza coscienza è solo la rovina dell’anima”, scrive Morin, e del mondo, potremmo aggiungere. Proprio perché la mente umana è protagonista dello sviluppo storico, decisiva è l’importanza che assumerebbe l’unificazione della scienza in luogo dell’unilateralità delle menti.

Riconoscere, distinguere e riunire antagonismi complementari

Occorre una rivoluzione paradigmatica: si tratta elaborare una forma di sapere unitario che permetta di “riconoscere, distinguere e riunire antagonismi complementari” (p. 61), quegli antagonismi che fanno del progresso un plesso di fenomeni ambigui e il cui mancato riconoscimento impedisce di riconoscere pienamente il nostro legame con la biosfera organizzando, al tempo stesso, la natura e la società.

Ma occorre partire dalla consapevolezza che l’essere umano è tanto sapiens, quanto demens, ma, soprattutto, quasi ripetendo le parole di Sofocle nell’Edipo Re, che è capace del meglio e del peggio; il governo del mondo e l’autogoverno dell’essere umano richiedono una scienza unitaria il cui sguardo sia la guida di una politica dell’acqua (che disinquini fiumi, laghi, oceani), di una politica delle campagne che limiti l’espansione industriale nell’agricoltura e favorisca il ritorno delle piccole aziende agricole, di una politica economica che limiti l’onnipotenza del profitto, di una politica della produzione che favorisca la fabbricazione di prodotti utili e necessari e la decrescita dei prodotti superflui o dal valore illusorio, di una politica di solidarietà che sostenga i raggruppamenti solidali, di una politica dell’istruzione per la “formazione di menti interrogative, in grado di problematizzare e di dubitare, capaci di autocritica e di critica” (p. 69) e, infine, di una politica di riforma dello Stato per eliminare le lobbies private parassitarie e l’inefficacia burocratica. Si tratta di un processo di umanizzazione, cioè di miglioramento delle relazioni umane e delle relazioni con la natura.

Morin conclude: “Non è più la speranza apocalittica della lotta finale. È la speranza coraggiosa della lotta iniziale: necessita che si restaurino una concezione, una visione del mondo, un sapere articolato, un’etica e una politica” (p. 75). Ma quale potrebbe essere il soggetto concreto, critico-pratico in grado di iniziare una simile lotta su molti fronti?

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FRANCESCO INGRAVALLE
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