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Piobbichi, il disegnatore sociale che mette l’arte al servizio delle persone migranti

| Laura Tussi

Tempo di lettura: 5 minuti

Piobbichi, il disegnatore sociale che mette l’arte al servizio delle persone migranti
Dall’Umbria a Lampedusa, la vita di Francesco Piobbichi segue un filo rosso: quello dei diritti degli “invisibili”, delle persone di cui si parla solo quando un telo bianco ne copre il corpo o la loro baracca brucia. Attraverso la sua arte, Francesco dà voce a loro, raccontando le loro storie e sostenendoli attivamente nell’affermazione dei […]

Dall’Umbria a Lampedusa, la vita di Francesco Piobbichi segue un filo rosso: quello dei diritti degli “invisibili”, delle persone di cui si parla solo quando un telo bianco ne copre il corpo o la loro baracca brucia. Attraverso la sua arte, Francesco dà voce a loro, raccontando le loro storie e sostenendoli attivamente nell’affermazione dei loro diritti.

«Se fossi nato in questo periodo negli USA, mi avrebbero dato il Ritalin per calmarmi dato che sono iperattivo. Invece, una maestra intelligente mi diede dei colori per disegnare mentre lei faceva lezione: aveva notato che il disegno era un modo per concentrarmi e ascoltare le sue spiegazioni».

Francesco Piobbichi ha iniziato a disegnare alle elementari e da allora non ha più smesso. Oggi è un “disegnatore sociale” e lavora come operatore per il progetto Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. Tra i suoi ultimi lavori ci sono “Mediterranean Hope” e “Fuori dal buio” (Edizioni Cronache Ribelli), testi in cui Piobbichi racconta attraverso i suoi disegni il dramma dei profughi che attraversano il Mediterraneo.

Francesco Piobbichi usa l’arte per denunciare le ingiustizie subite dai migranti, promuovendone la dignità e i diritti

Come hai posto il disegno nel mondo dell’impegno sociale e soprattutto per “salvare” gli ultimi e i più fragili del pianeta provenienti dal mare?

Il disegno è parte della mia vita e lo uso come mezzo espressivo in politica e nelle pratiche sociali. Ho compreso che dovevo legare il disegno alla pratica sociale, utilizzandolo per raccontare e conservare la memoria, valorizzando l’aspetto artistico come strumento di sostegno. Questo è l’opposto di ciò che avviene oggi, dove la comunicazione sfrutta e commercializza il racconto sociale senza restituire nulla.

In che modo il lavoro in frontiera ha motivato e ispirato la tua arte?

Il lavoro in frontiera mi ha fornito uno sfondo per i miei disegni, una cornice e uno scenario in cui collocare le storie che racconto da anni in tutta Italia. Proietto i disegni dietro di me, come facevano i cantastorie dei subalterni nella Sicilia degli anni ’50.

Lampedusa. Il luogo che ha dato vita e sfogo a questa tua ispirazione.

Lampedusa è stato il luogo che più mi ha formato in questo senso. Ho cercato di utilizzare l’arte per costruire una pratica di racconto decolonizzato, rispettando le persone ritratte, spesso esposte senza riguardo. Il disegno mi ha permesso di proteggerle, pur raccontando i segni che la frontiera ha lasciato sul loro corpo e anima.

Segnare il dire dei senza voce e dei senza nome sprofondati nell’abisso: così è nato il tuo libro “Disegni dalla frontiera”.

È un libro nato approdo dopo approdo, mentre portavamo acqua e tè al molo Favaloro. Storia dopo storia, ho messo insieme tavole che raccontano la tensione tra i colori di una delle isole più belle del Mediterraneo e la violenza delle frontiere occidentali, tra gli insulti razzisti e la solidarietà e accoglienza dal basso che abbiamo visto intorno a noi.

In questi disegni ritrai molti sentimenti forti come rabbia e amore. Li stessi che porti con te nei racconti.

Ho sempre pensato che, di fronte al genocidio che gli stati occidentali attuano con le loro politiche di morte alle frontiere e la propaganda di odio, fosse necessario opporsi in tutti i modi, senza tregua.

Così recuperi i segni di questa violenza nelle storie altrimenti dimenticate?

Con questo spirito, ho collaborato con i custodi del cimitero di Lampedusa alla sistemazione delle lapidi. Lapidi di persone che riposano in collera, martiri della libertà uccisi dall’indifferenza usata come arma.

Dovevi davvero parlare di quel mare spinato che disumanizza la memoria dei morti e degrada i diritti e la dignità dei vivi…

Dovevo rendere visibile quella maledizione che chi sopravvive si porta addosso per tutta la vita, come se la frontiera si attaccasse alla pelle. Quando i giornalisti venivano a intervistarci al molo Favaloro per creare campagne di paura, li invitavamo a vedere la vera emergenza. Abbiamo proposto di intervistare le lapidi dei morti, in mare o per la violenza subita in Libia. Piume di libertà avvolte da filo spinato, persone senza nome che grazie a quelle immagini diventano simboli di martiri della libertà di movimento.

ste lapidi dicono che l’emergenza non è quando arrivano migliaia di persone vive sull’isola di Lampedusa, ma le migliaia di morti in fondo al mare e nei lager.

Alla cancellazione delle prove ci siamo opposti in pochi, ma siamo riusciti a lasciare un segno: una pratica collettiva di racconto che denuncia. Una delle poche cose di cui sono orgoglioso è essere stato parte di una narrazione collettiva che ha contribuito a questo e continuerà a mantenere viva la memoria.

“Fuori dal buio” è l’ultimo lavoro che hai realizzato. Perde completamente i colori, quasi a voler significare che una volta entrati nella fortezza occidentale i migranti diventano ombre sul nero.

Un muro nero che blocca la luce dei diritti e dell’uguaglianza. Disegnare con il bianco sul nero è stato per me un modo di mettere in chiaro le cose. Se i disegni della frontiera rappresentavano la tensione tra i colori del Mediterraneo e la violenza della frontiera, quelli in bianco e nero di “Fuori dal Buio” parlano di ombre e luce, di oblio e riscatto. Sono nati nelle sere d’inverno, dopo le visite alla tendopoli di San Ferdinando e ai ghetti dei braccianti della Piana di Gioia Tauro.

“Fuori dal buio” è anche il nome del progetto in cui avete distribuito giacche con dispositivi catarifrangenti e luci per le biciclette dei braccianti.

Sì, per ridurre il rischio che vengano investiti nelle strade senza illuminazione quando tornano dal lavoro. Da quel progetto è nato “Dambe So”, l’ostello sociale che, con l’aiuto di SOS Rosarno e la cooperativa Mani a Terra, riesce a dare accoglienza dignitosa a circa 50-60 braccianti durante la stagione invernale della raccolta agrumicola. Questo era un progetto che avevo in mente da circa dieci anni, da quando con le Brigate della Solidarietà Attiva e Finis Terrae contribuimmo allo scoppio del primo sciopero autorganizzato dei braccianti di Nardò, che racconto in un altro libro di disegni: “Sulla Dannata Terra”.

“Fuori dal Buio” è un libro nato quasi per caso?

Ero a Perugia e mostrai le mie tavole a Matteo Minelli di Cronache Ribelli, che decise di raccoglierle in un libro. La Piana di Gioia Tauro è un luogo in cui i braccianti subiscono una violenza che nel tempo ha assunto varie forme: dagli omicidi diretti, come quello di Soumaila Sacko, agli incendi nelle baracche, come nel caso di Becky Moses, agli investimenti stradali, come Gora Gassama, o alla morte per freddo, come Dominic Man Addiah. Sono decine e decine. Parliamo di loro solo quando un telo bianco copre il loro corpo o quando una baracca brucia; altrimenti restano invisibili.

Mediterranean Hope, il progetto della FCEI che ti permette di fare questo lavoro, è stato un aiuto fondamentale per costruire Dambe So. So che è una sorta di piccola rivoluzione.

Sì, perché dimostra che le cose si possono fare. Dimostra che i lavoratori braccianti possono avere una casa e non un container, che possono vivere in città e non in luoghi confinati, che possono avere libertà e dignità. Dimostra che l’utilizzo ecosociale della terra è possibile e che tagliando la GDO si può alimentare un processo economico di mutuo appoggio che sostiene pratiche come la nostra. Una delle poche cose di cui sono orgoglioso è essere stato parte di una narrazione collettiva.

Oltre a tutto questo, “Fuori dal buio” è un libro di denuncia diretta allo strapotere della Grande Distribuzione Organizzata?

Certamente. La GDO, dopo aver centralizzato i processi di acquisto, opera come un monopolio sui prezzi, importando prodotti a bassissimo costo da fuori Europa e ricattando gli agricoltori con prezzi al ribasso, che a loro volta sfruttano i braccianti.

Assieme a diversi attori che lavorano nella Piana di Gioia Tauro state costruendo un modello di accoglienza diffuso contro il modello dei campi. State provando a costruire una proposta?

Sì. “Fuori dal Buio” si conclude con una frase per me molto importante: “Verrà il giorno del riscatto, per noi e le nostre terre colonizzate.” La frase è accompagnata dall’immagine di un pugno che accende luce nell’oscurità e brucia la frontiera dell’ingiustizia. È un’immagine che restituisce potenza a questi lavoratori che sfidano un lungo viaggio per porre un tema che nessuno vuole affrontare: il diritto alla mobilità per tutti. Oggi viviamo in un pianeta dove possono viaggiare solo i ricchi e chi ha la fortuna di nascere in Occidente; il diritto alla mobilità globale è una rivendicazione visionaria, ma potente. Come lo era rivendicare le otto ore lavorative nei secoli scorsi, come lo era togliere i bambini dalle fabbriche.

Scrive per noi

Laura Tussi
Laura Tussi, docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell'ambito delle scienze della formazione e dell'educazione. Coordinamento Campagna Internazionale ICAN - Premio Nobel per la Pace 2017 per il disarmo nucleare universale, fa parte dei Disarmisti Esigenti, gruppo membro della rete mondiale e premio Nobel per la pace ICAN.