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Flaco, fondatore dei Punkreas: dal punk alla musica come impegno sociale, affrontando temi di pace e guerra

| Laura Tussi

Tempo di lettura: 5 minuti

Flaco, fondatore dei Punkreas: dal punk alla musica come impegno sociale, affrontando temi di pace e guerra
Ci troviamo in una crisi che emerge in un periodo in cui abbiamo perso l’abitudine a pensare e a cercare risposte collettive. Spesso, nemmeno ci poniamo le domande, figuriamoci trovare le risposte. Per Flacopunx, chitarrista, cantautore e fondatore dei Punkreas, la musica non è soltanto un divertimento, ma un potente strumento per sensibilizzare le coscienze. […]

Ci troviamo in una crisi che emerge in un periodo in cui abbiamo perso l’abitudine a pensare e a cercare risposte collettive. Spesso, nemmeno ci poniamo le domande, figuriamoci trovare le risposte.

Per Flacopunx, chitarrista, cantautore e fondatore dei Punkreas, la musica non è soltanto un divertimento, ma un potente strumento per sensibilizzare le coscienze.

La nostra Laura Tussi ha parlato con lui di pacifismo, geopolitica, storia e arte.

Flaco, storico fondatore dei Punkreas, un gruppo punk noto per il forte slancio ideale antifascista, ha sempre creduto nel potere della musica di smuovere le coscienze, ispirare pensiero e azione. Da anni, Fabrizio Castelli, meglio conosciuto come Flaco, ha intrapreso una carriera solista come Flacopunx, senza mai abbandonare il suo impegno sociale e politico, soprattutto sui temi del pacifismo e della nonviolenza.

Flaco ha fondato i Punkreas, dove è stato chitarrista, compositore e portavoce fino al 2014. Dopo la separazione dalla band per motivi mai chiariti, nel 2016 ha pubblicato “Coleotteri”, un album solista sotto il nome Flacopunx. Dopo un lungo silenzio, è recentemente tornato con “Luce”, un singolo in collaborazione con i Blak Vomit, ispirato al tema della pace in Europa.

Gli abbiamo fatto qualche domanda.

Intervista a Fabrizio Castelli, in arte “Flaco”

Puoi raccontarci la genesi della tua ultima composizione musicale, “Luce”?

Questa canzone nasce dal momento di crisi che stiamo attraversando, una crisi in cui il pubblico e il privato si intrecciano, si influenzano e si confondono sempre di più. Abbiamo perso l’abitudine di pensare collettivamente e di cercare risposte insieme. Spesso, nemmeno ci poniamo le domande. Figuriamoci trovare le risposte. Sebbene l’origine dei problemi sia sociale – la guerra, la pandemia, la crisi economica e culturale – la ricerca delle soluzioni è spesso personale e privata, e per questo inefficace.

Forse si è perso il piacere del confronto e dell’incontro? Sicuramente si è persa la fiducia nella possibilità di incidere positivamente sulla realtà: “Tanto non cambia niente”?

Non saprei dire se questa percezione sia corretta oltre che diffusa. L’unica cosa certa è che, se non si crede di poter fare qualcosa, non la si farà. E così ce ne stiamo per lo più a non fare niente, aspettando che le cose vadano come devono andare.

Sei impressionato da questa guerra al centro del vecchio continente, con l’Europa che vede scontrarsi Ucraina, Russia, Stati Uniti e NATO?

Alla notizia dell’attacco russo su Kiev sono rimasto traumatizzato. Non mi pareva possibile che in Europa potesse succedere qualcosa che istintivamente collegavo all’invasione hitleriana dei Sudeti. La cosa paradossale è che la Russia presentava l’aggressione come un’operazione di denazificazione. Ho pensato che non fosse giusto tollerarlo. E in effetti non è stato tollerato. Ma immediatamente dopo, lo scenario mi è sembrato molto torbido.

Ognuno interpreta ciò che accade filtrandolo attraverso le proprie convinzioni o pregiudizi, creando un’impressionante confusione di simboli, appartenenze e identità ormai ridotte a fantasmi. È così, vero?

Evidentemente ci muoviamo ancora seguendo gli schemi narrativi del Novecento, mentre il contesto è cambiato, dando luogo a numerosi cortocircuiti che mi rendono impossibile schierarmi. Mentre Putin presentava la sua operazione speciale come un’opera di denazificazione, le destre estreme di tutta Europa (finanziate dallo stesso Putin) si schieravano più o meno apertamente con la Russia. Le sinistre, strette tra la nostalgia dell’URSS comunista, la critica all’espansionismo della NATO e la necessità di condannare l’aggressione sul piano del diritto internazionale, finivano per accodarsi alla linea anglo-americana: avanti tutta fino alla – impossibile – vittoria.

Questa guerra sembra sempre più un grande spartiacque internazionale, ideologico ed etnico. È così?

Contemporaneamente, alcuni provenienti dalla sinistra erano affascinati dall’antiamericanismo e condannavano la politica occidentale di accerchiamento della Russia. Dall’altra parte, i nazisti o filo-nazisti ucraini (in Ucraina c’è una lunga tradizione di simpatie naziste in funzione anti-sovietica) erano ovviamente tutt’altro che filo-russi. È evidente che su queste basi non se ne esce.

In Italia, inevitabilmente, la retorica di guerra ha preso il controllo dell’informazione, creando una cappa di sospetto su chiunque osasse fare dei distinguo. Giusto?

La maggioranza ha accettato la narrazione secondo cui era doveroso mettersi l’elmetto (almeno fino a che erano altri a doverlo fare) e difendere i nostri valori minacciati. Chi criticava questa versione veniva immediatamente additato come filo-russo e quindi traditore, anche quando non aveva nulla da spartire con Putin e la sua politica. La legge della guerra implica la necessità di essere arruolati, a forza o per convinzione, da una parte o dall’altra. Ed è esattamente questa logica che i rappresentanti delle istituzioni europee hanno avallato, diffuso e alimentato fin dall’inizio.

Passato il primo momento di sgomento e indignazione per l’invasione, ti sembra incredibile che nessun rappresentante delle istituzioni europee abbia osato parlare di trattativa e negoziazione?

Eppure, le nazioni d’Europa sono le più esposte in questo scenario. Oltre al rischio sempre presente di un’escalation nucleare, la guerra comporta danni economici e sociali che dissanguano ulteriormente quel poco di welfare rimasto, mentre arricchiscono pochi produttori di armi.

Mi chiedevo: è possibile che a nessuno venga in mente che proporre soluzioni di pace possa essere più sensato che soffiare sul fuoco di una guerra dagli obiettivi e dagli esiti sempre più incerti? Con me, e prima di me, se lo chiedevano illustri rappresentanti della cultura europea. Cito ad esempio Edgar Morin: “È sorprendente che in una congiuntura così pericolosa, il cui pericolo aumenta continuamente, si levino così poche voci in favore della pace nelle nazioni più esposte, in primo luogo quelle europee” (“Di guerra in guerra”, Cortina, 2023).

Al posto di iniziative per il dialogo e la risoluzione pacifica del conflitto, sul piano istituzionale abbiamo avuto Macron che si improvvisa Napoleone, facendo la stessa fine senza doversi prendere il disturbo di affrontare a cavallo l’inverno russo, e numerosi altri politici che hanno soffiato sul fuoco. Che ne pensi?

A livello di movimenti di opinione, a parte l’appiattimento e il sonnambulismo generale con qualche venatura bellicista (soprattutto sui media), ci sono state iniziative pacifiste di ispirazione cattolica e sociale, ben rappresentate dal Papa. Ora, vorrei spendere giusto due parole su queste generiche aspirazioni alla pace: sono inutili e prive di consistenza. Troppe volte abbiamo visto questo teatrino, dalle canzoncine tipo “Il mio nome è mai più” a Ligabue che suona al cospetto di Sua Santità. Una volta officiata una posizione formale tanto dovuta quanto ininfluente, si torna a casa a guardare una serie di Netflix con l’impressione di aver fatto la propria parte.

Questo pacifismo generico ti è inaccettabile per più di un motivo?

Anzitutto, fingere che l’aggressività e la guerra non facciano parte del corredo filogenetico dell’uomo e che quindi possano essere eliminate con un semplice atto di buona volontà e un appello ai buoni sentimenti è una truffa. Negare il problema è il modo migliore per non affrontarlo.

In secondo luogo, il pacifismo europeo è storicamente un effetto della guerra fredda: mentre gli equilibri mondiali erano garantiti dalle armi e dagli scudi stellari americani e sovietici, agli europei era consentito scendere in piazza e manifestare dissenso, ma senza alcuna forza reale. Nel 2003, a Roma e Madrid, milioni di persone hanno manifestato contro la guerra in Iraq. C’ero anch’io. Risultati? Zero. Che vuoi che gliene importi agli americani di qualche milione di europei e delle loro bandiere colorate?

Hai scritto anche una canzone, anni fa. Si intitola “1861” e dice: “Il pacifismo protetto/dall’ombra lunga di Yalta”?

L’hanno capita solo i lettori di Limes, ma non c’erano lettori di Limes tra i tuoi fan, perciò il disco di Flacopunx non è andato molto bene.

Per tutti questi motivi, non credo ci possa essere nessuna iniziativa di pace incisiva, se non si affronta la questione delle condizioni storiche e geopolitiche. In altre parole, l’Europa può avviare un processo di pace e garantirne le condizioni se si costituisce come forza politica consistente e federata, riprendendo il programma del manifesto di Ventotene. Altrimenti, non resta che leggere le istruzioni ed eseguire.

Chi oggi vuole fare il pacifista non può limitarsi agli appelli e neanche alle manifestazioni?

Deve anche e soprattutto studiare le condizioni storiche contingenti, cercare alleanze e trovare una strada praticabile nel contesto reale. È più faticoso che sventolare una bandiera arcobaleno o gridare che è tutta colpa del patriarcato. E molto lontano da quel qualunquismo per il quale “sono tutti uguali”, che è diventato un mantra di supporto all’ascesa delle destre in tutta Europa.

Queste destre sovraniste oggi si gonfiano il petto, ma domani saranno di necessità le nuove ancelle?

In Italia sta già succedendo. Sempre che i nostri protettori, a un certo punto, non decidano che la colonia europea è troppo dispendiosa e ci abbandonino come un Iraq qualunque.

Scrive per noi

Laura Tussi
Laura Tussi, docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell'ambito delle scienze della formazione e dell'educazione. Coordinamento Campagna Internazionale ICAN - Premio Nobel per la Pace 2017 per il disarmo nucleare universale, fa parte dei Disarmisti Esigenti, gruppo membro della rete mondiale e premio Nobel per la pace ICAN.