Breve storia dei fosfati, nutrimento della terra
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Già nel 1959 Isaac Asimov metteva in evidenza il pericolo che la mancanza di fosforo possa compromettere la futura disponibilità di alimenti. Giorgio Nebbia, nel suo “racconto lungo” del mese, ripercorre la storia dei fosfati dai Cinesi ai giorni nostri.
I Cinesi, che hanno sempre saputo per primi molte cose, già duemila anni fa avevano capito che “faceva bene” ai terreni aggiungere ossa calcinate, ma ci sarebbero voluti i progressi della chimica dell’Ottocento per comprendere che le ceneri di ossa contengono dei sali del fosforo e che il fosforo è un elemento necessario alla vegetazione. Il fosforo presente nel terreno viene assorbito attraverso le radici e viene fissato all’interno delle piante e da queste viene trasferito agli animali che incorporano il fosforo al proprio interno sia come fosforo organico sia come fosforo inorganico, ovvero come fosfato di calcio. Solo molto più tardi sarebbe stato compreso il ruolo del fosforo come elemento necessario negli enzimi, importante ai fini dei fenomeni ossido-riduttivi della vita, cioè ai fini della vita.
Un ciclo un tempo chiuso
Per millenni il ciclo del fosforo è andato avanti sostanzialmente chiuso, senza bisogno di apporto di fosfati al terreno. Infatti, il fosforo che i vegetali portano via al terreno, ritorna al terreno sotto forma di spoglie vegetali; quello assorbito dagli animali che si nutrono di alimenti vegetali ritorna al terreno sotto forma di escrementi e di spoglie animali. Il fosforo circola prevalentemente sotto forma di fosfati; esistono almeno tre fosfati di calcio con differenti rapporti fra fosforo e calcio e solo alcuni di questi, quelli solubili nelle soluzioni circolanti nel terreno, sono assimilabili dai vegetali. Il prodotto iniziale e quello finale del ciclo è il fosfato tricalcico Ca3(PO4)2, praticamente insolubile in acqua; per reazione con acidi il fosfato tricalcico si trasforma in fosfato bicalcico CaHPO4, poco solubile in acqua, e in fosfato monocalcico Ca(H2PO4)2, più solubile in acqua. È in queste due forme solubili che il fosforo viene assorbito, attraverso le radici, dai vegetali.
XIX secolo: la rottura del ciclo
La rottura del ciclo naturale del fosforo è cominciata agli inizi dell’Ottocento con l’allontanamento della popolazione agricola dai campi, con la crescita delle città e della popolazione e della richiesta di alimenti vegetali e animali. Si sono così diffuse le coltivazioni intensive che sottraevano fosforo al terreno e ben presto se ne sono viste le conseguenze con una diminuzione delle rese agricole.
Si deve a Archibald Cochrane, nono conte di Dundonald (1748-1831), autore nel 1795 del “Trattato che mostra il legame fra agricoltura e chimica”, l’osservazione che l’addizione al terreno di polvere di ossa, contenente fosfato tricalcico, aiutava la crescita delle piante e che le ossa erano più efficaci come concimi se venivano prima calcinate. È così aumentata la richiesta di ossa da usare come concime, al punto che nei primi anni dell’Ottocento l’Inghilterra doveva addirittura importare ossa dal Continente in ragione di alcune diecine di migliaia di tonnellate all’anno e alcuni andavano a recuperare le ossa dei morti nei campi di battaglia, nei cimiteri e addirittura nelle catacombe.
Prime invenzioni
Justus von Liebig (1803-1873) in Germania nel 1842 scoprì che le ossa erano più efficaci come concimi se venivano prima trattate con acido solforico che rendeva il fosforo più solubile in acqua e quindi nelle soluzioni presenti nel terreno. La stessa osservazione fece l’inglese John Bennett Lawes (1815-1900) che nel 1842 brevettò il processo di trattamento sia delle ossa, sia di minerali fosfatici, di cui esistevano giacimenti sotto forma di coprolite in Inghilterra, con acido solforico, aprì una fabbrica di concimi di ossa e osservò che l’acido solforico ottenuto col processo delle camere di piombo aveva una concentrazione troppo bassa e che era necessario trattare le ossa con acido solforico concentrato recuperato nella “torre di Glover”.
A seconda della proporzione di acido solforico impiegato nel trattamento dei fosfati naturali si possono ottenere in diverse proporzioni i “perfosfati”, miscele di fosfato monocalcico e di fosfato bicalcico, con diverso grado di solubilità in acqua, insieme a solfato di calcio e con un “titolo”, l’indicatore del contenuto in fosforo espresso come anidride fosforica P2O5, variabile dal 14 al 20 %.
Italia, un’occasione persa
Nel 1844 un altro inglese, John Murray, brevettò un altro processo di produzione dei perfosfati per trattamento con acido dei minerali fosfatici esistenti nel Nord Africa e propose al governo degli Stati Sardi a Torino di cedere lo sfruttamento dell’invenzione alla società dei fratelli Sclopis, industriali chimici di Torino, in cambio della garanzia di un monopolio. L’Accademia di Agricoltura di Torino esaminò il processo e sollevò dei dubbi sulla sua efficacia per cui non se ne fece niente e così l’Italia ha perso un’importante occasione di industrializzazione alla vigilia delle guerre che avrebbero portato, nel 1861, alla nascita del regno unitario. Anche il Conte di Cavour (attento ai problemi dell’industria e agricoltura in Piemonte) aveva costituito una società con i chimici torinesi Rossi e Schiapparelli per la produzione di concimi fosfatici partendo dalle ossa, ma anche questa impresa non andò bene e la società fu sciolta nel 1855.
Intanto nel mondo la produzione di perfosfati si stava diffondendo con successo; nel 1854 in Inghilterra esistevano 14 fabbriche di perfosfati ottenuti per trattamento con acidi dell’apatite e della fosforite, i due più diffusi minerali del fosforo, costituiti essenzialmente da fosfato tricalcico. Nel 1859 cominciarono a sorgere fabbriche di concimi fosfatici negli Stati Uniti
Primi passi dell’industria chimica
La diffusione dell’industria dei perfosfati in Italia è ben descritta nel fondamentale libro del dott. Giuseppe Trinchieri: “Industrie chimiche in Italia dalle origini al 2000”, Mira (VE), Editrice Arvan, 2001, di cui vivamente raccomando la lettura a chi vuole capire qualcosa sull’evoluzione dell’industria chimica italiana. Nel 1862, subito dopo l’unificazione dell’Italia e quindi l’apertura di un nuovo grande mercato nazionale di prodotti per l’agricoltura, il prof. Angelo Pavesi (1830-1896) fu inviato all’esposizione di Londra con l’incarico di esaminare i processi di produzione dei concimi artificiali inglesi e nel 1869 Carlo Cattaneo (1801-1869) fece bandire dall’Istituto Lombardo di Scienze e lettere il premio Brambilla per quegli industriali che si fossero dedicati alla produzione di concimi fosfatici. Il premio di 3000 lire fu assegnato alla ditta Curletti che, con la consulenza del prof. Pavesi, aveva iniziato la produzione di perfosfati a Treviglio usando le ossa dei macelli di Milano. Il cammino dell’impresa fu lento, così come quello della fabbrica di Luigi Fino a Milano. Nel 1873 la società Sclopis di Torino iniziò la produzione di perfosfati dalle fosforiti e nello stesso tempo la ditta Ferruccio Marchi aprì una fabbrica di concimi fosfatici a Pescia (Pistoia), imprese ostacolate, fra l’altro, dall’insufficiente produzione nazionale di acido solforico.
Dalla ghisa il concime
Nella seconda metà del 1800, mentre si stavano moltiplicando le fabbriche di perfosfati in tutto il mondo, anche in seguito all’aumento della popolazione mondiale e alla crescente richiesta di prodotti agricoli alimentari, fu trovata un’altra fonte di concimi fosfatici. Si era visto che il convertitore della ghisa in acciaio, inventato nel 1856 dall’inglese Henry Bessemer (1813-1898), non era adatto a trattare le ghise contenenti fosforo come quelle ottenute da alcuni minerali inglesi e della Lorena, la zona della Francia che era stata annessa alla Germania dopo la guerra franco-tedesca del 1870.
Per utilizzare le ghise contenenti fosforo Sidney Gilchrist Thomas (1850-1885), col cugino Percy Gilchrist (1851-1935), nel 1878 brevettò la sostituzione del rivestimento refrattario acido siliceo del convertitore Bessemer con un rivestimento refrattario basico di calcare; il fosforo veniva fissato dal rivestimento calcareo sotto forma di fosfato di calcio che trovò ben presto impiego come concime fosfatico sotto il nome di “scorie Thomas”, costituite da silicofosfati di calcio con un titolo di circa il 16 % di P2O5 .
Per più di un secolo il perfosfato minerale semplice, con un titolo del 16-20 % è stato il principale concime fosfatico, relativamente poco costoso e con il vantaggio di contenere solfato di calcio in ragione di circa il 12% di zolfo.
La svolta dei superfosfati
La svolta successiva fu rappresentata dalla produzione di un superfosfato più concentrato, per trattamento dei minerali fosfatici con acido fosforico, anziché con acido solforico. L’acido fosforico era ottenuto trattando i minerali fosfatici con un eccesso di acido solforico; si separava una soluzione acquosa di acido fosforico, che veniva poi concentrato, e un fango di solfato di calcio, i fosfogessi.
Successivamente è stato messo a punto un processo di produzione dell’acido fosforico per riscaldamento ad alta temperatura in un forno elettrico dei minerali fosfatici con carbone e sabbia silicea, un metodo proposto da Friedrich Wöhler (1800-1882) ma applicato su scala industriale a partire dall’inizio del Novecento, in seguito alla diffusione e alla diminuzione del prezzo dell’elettricità.
Trattando i minerali fosfatici con acido fosforico era possibile ottenere dei “perfosfati tripli” con un titolo intorno al 40-45 % di P2O5. Il Ca(H2PO4)2 ha un titolo teorico del 47 %. La produzione del perfosfato triplo è cominciata nel 1934 da parte della Tennessee Valley Authority (TVA), la società statale creata dopo la I guerra mondiale per la produzione di energia idroelettrica, di concimi e di prodotti chimici.
Sempre la TVA ha introdotto in commercio, a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, un concime costituito da fosfato di ammonio ottenuto per reazione fra l’acido fosforico e l’ammoniaca anidra. La forma più comune è quella del fosfato biammonico (NH4)2HPO4, contenente i due elementi fertilizzanti fosforo e azoto, un concime misto, quindi. Nei concimi misti il titolo è indicato con tre cifre che corrispondono al contenuto % in azoto N, in P2O5 e in potassio espresso come K2O. Il fosfato biammonico ha un titolo 18-46-0; viene prodotto anche il fosfato monoammonico (NH4)H2PO4 con titolo 11-52-0.
Rischio radioattività e inquinanti
La materia prima per la produzione di tutti i concimi fosfatici è rappresentata principalmente dai minerali fosforiti e apatiti, costituiti da fosfato tricalcico insieme ad altri sali di calcio, spesso fluoruri, a silicati e a sali di ferro e alluminio. I minerali fosfatici, caratterizzati anch’essi sulla base del “titolo” in P2O5 che varia intorno al 40 %, contengono anche vari altri elementi fra cui il fluoro, che viene estratto e usato come materia prima per i composti fluorurati, e l’uranio in concentrazione fra lo 0,010 e il 0,020 %; essi sono perciò blandamente radioattivi e anzi quelli più ricchi di uranio sono stati anche considerati come fonti commerciali di questo elemento. Risultano così radioattivi anche i fosfogessi, in cui si concentrano anche altri elementi inquinanti originariamente presenti nei minerali fosfatici.
I fosfati naturali: una riserva non rinnovabile
L’aumento della richiesta di concimi fosfatici comporta un crescente sfruttamento delle riserve di fosfati naturali, non rinnovabili, col rischio che anche queste riserve, come ormai quelle del petrolio, possano esaurirsi; probabilmente entro alcune diecine di anni. Nel 1959 il grande scrittore, non solo di fantascienza, Isaac Asimov (1920-1992) intitolò un articolo: “Il fosforo è la strozzatura del futuro della vita”, mettendo in evidenza il pericolo che la mancanza di fosforo possa compromettere la futura disponibilità di alimenti. Il corpo umano, per esempio, ha bisogno di alimenti contenenti circa 0,6 grammi di fosforo P al giorno.
Le riserve mondiali di minerali fosfatici nel mondo sono stimate di circa 15.000 milioni di tonnellate, concentrate in pochi paesi: Cina, Stati Uniti, Marocco e Sahara occidentale (quest’ultima terra appartenente al popolo Sahrawi ed è occupata dal Marocco), e pochi altri. L’estrazione annua di minerali fosfatici nel 2008 è stata di circa 170 milioni di tonnellate ed è in continuo aumento ogni anno. Oltre che come concimi (che ne assorbono circa il 90 %), i composti del fosforo hanno applicazioni commerciali in molti campi, dai detersivi, alla metallurgia, all’industria alimentare, eccetera.
Giorgio Nebbia
nebbia@quipo.it
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