Skip to main content

Esserci o non esserci? In 75 mila a Manhattan per dire di no al fossile

| Giacomo Vicario

Tempo di lettura: 3 minuti

Per le decine di migliaia di persone in corteo a New York la mobilitazione per il clima non è un dilemma, in una marcia inclusiva che infrange record e condanna governi.

Troppo grandi e troppo radicali da essere ignorati”. Così Alexandria Ocasio Cortez, la deputata democratica al Congresso degli Stati Uniti forse più impegnata nella lotta alla crisi climatica, delinea quello che dovrebbe e, si spera, sarà il futuro del movimento ambientalista a livello globale. Davanti al podio da cui con veemenza condanna l’immobilismo della Casa Bianca e dei governi di tutto il mondo nel contrasto ai cambiamenti climatici, una folla eterogenea, numerosa e rumorosa si è appena radunata dopo aver concluso una marcia da record per le strade di New York. Secondo gli organizzatori di March to End Fossil Fuels, 75 000 persone si sono unite in corteo in quella che è stata la manifestazione ambientalista più grande degli ultimi 5 anni su suolo americano ed anche la più partecipata nel periodo post-pandemico: una marcia per “porre fine ai combustibili fossili” e per chiedere a gran voce una transizione ecologica che sia veloce, ma soprattutto “giusta”.

Il contesto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il Summit sul Clima

L’occasione è l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di lunedì seguita dal Summit sul Clima di mercoledì, momenti istituzionali di confronto e discussione che vedranno la partecipazione dei leader politici mondiali e che saranno l’occasione, secondo il Segretario Generale ONU Antonio Guterres, di affrontare seriamente il tema della crisi climatica. Al Summit però, non parteciperà il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, assenza che non è passata inosservata tra gli ambientalisti americani: nonostante l’imponente piano di investimenti green approvato dalla sua amministrazione (grazie anche all’impegno politico della stessa Cortez), per gli attivisti il Presidente starebbe de-prioritizzando la lotta ai cambiamenti climatici nell’agenda politica del suo mandato. A conferma di ciò, gli viene rimproverata la scelta controversa di approvare nuovi progetti e di ampliare quelli già esistenti per l’estrazione di petrolio e gas naturale all’interno dei confini nazionali e, più in generale, una malcelata riluttanza nel tentare di riformare il sistema economico-sociale nel suo complesso, a favore della gente “normale” e non delle fasce più ricche della società.

Inclusività e necessità di cambiamento sociale

Non stupisce quindi la presenza domenica di etnie, razze, classi e generazioni diverse tra i manifestanti: dai nativi agli ispanici, dalla Generazione Z agli ottantenni, donne, uomini, persone queer, la protesta è stata una rappresentazione concreta di cosa significhi “inclusività” e di come questo principio debba essere il motore trainante di una transizione giusta. “Non è sufficiente passare dal petrolio al pannello solare – continua Cortez – ma serve ripensare inevitabilmente alle modalità con cui si organizza la società, in modo tale da non lasciare nessuno indietro”; mentre dice questo, alla sua sinistra un interprete traduce nella lingua dei segni le sue parole, atto esemplificativo non soltanto di un interesse concreto all’inclusione da parte dell’organizzazione della manifestazione, ma anche di uno zeitgeist che anima, oltre all’attivismo delle nuove generazioni il più ampio dibattito sociale e culturale degli ultimi anni. Quello che per i critici non è altro che un’assurda e sanguinaria battaglia per il “politicamente corretto” portata avanti sui social da eserciti di giovani e ingenui poser in erba è in realtà, se analizzata ad un livello meno superficiale, un’esigenza concreta che parte dal basso, specialmente dalle categorie più marginalizzate e discriminate. Un bisogno reale di conquistarsi un posto al tavolo o, se non previsto, di crearselo, decostruendo stereotipi e norme sociali generalmente accettate che però, alla lunga, perpetrano quella che il sociologo Rob Nixon definì “slow violence”: una violenza lenta, esercitata sistematicamente e con costanza nel tempo dalle istituzioni e che si traduce in discriminazione a livello giuridico, economico e sociale. E se come sappiamo la crisi climatica non tocca tutti allo stesso modo, nasce allora l’occasione per la collettività di ripensare ad un nuovo modo di fare e gestire la società, per far fronte nell’immediato alla questione ambientale ma anche per costruire insieme nuovi modelli post-capitalisti di sviluppo di lungo periodo che possano limitare le diseguaglianze e non basarsi sul privilegio di pochi a scapito di tutti.

La sfida e l’alternativa

Esserci, quindi, per le 75 mila persone in strada a New York, come per le centinaia di migliaia di persone che hanno marciato negli ultimi per il clima in tutto il mondo, significa accettare questa sfida, nel protestare per un pianeta senza fossile e nell’immaginare un futuro che sia davvero per tutti; e se anche la politica non dovesse (per coerenza) agire concretamente in questo senso, il corteo di New York dimostra ancora una volta come possa esistere un’alternativa, voluta dalla gente per la gente.

Scrive per noi

Giacomo Vicario