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Migrazioni: fra umanità e problemi

| TIZIANA CARENA

Tempo di lettura: 5 minuti

Migrazioni: fra umanità e problemi

In un mondo bloccato, mancano gli strumenti giuridico-politici per governare i flussi migratori. Che in base ai diritti umani richiedono due principi fondamentali: una accoglienza autentica e una concertazione europea perché le politiche di accoglienza dei flussi migratori possano risultare davvero efficaci. Viviamo in un’epoca di pensiero debole e sentimenti forti, all’insegna di un sapere infondato e non documentato. E l’uguaglianza dei diritti non è più senso comune com’era nel mondo “bipolare”, ma una opzione personale che si contrappone ad altre opzioni presenti nello spazio del mercato ideale e politico della cultura contemporanea. Un mercato ideale e politico dominato da una grande paura: la paura dell’“altro”.

Tiziana C. Carena

Francesco Ingravalle

 

Esaminiamo due tra gli svariati problemi che il fenomeno dei flussi migratori mostra anche all’osservatore meno attento.

Il primo problema è legato alla assorbibilità dei flussi migratori da parte dei contesti europei: l’accoglienza, che è un criterio ben radicato nello spirito della Costituzione italiana, non può limitarsi a un passivo “lasciare entrare”. Chi è accolto in Italia deve avere, in prospettiva, una casa e un lavoro cui è compito della pubblica amministrazione provvedere. Non vale, qui, l’obiezione secondo la quale abbiamo a che fare con “non-italiani”; se non altro perché il noto principio dell’INA-Case, “una casa per ogni lavoratore” è stato largamente disatteso anche per i lavoratori italiani. Ma c’è una ragione più forte perché una simile obiezione non valga: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo sancisce come preciso dovere di ogni Stato non soltanto la libertà del cittadino, ma la libertà dell’essere umano. Non esiste libertà che non sia, primariamente, libertà dal bisogno. Chi non dispone né di una casa, né di un lavoro, non è realmente libero. Inoltre, chi migra non è libero di migrare: sfida la morte possibile per sottrarsi alla morte certa.

I diritti dell’uomo nell’epoca del pensiero debole

L’attuazione dei diritti dell’uomo impone l’accoglienza autentica: questo direbbe un pensiero “forte”. Ma noi ci troviamo nell’èra del pensiero debole e del sentimento forte, un’èra profondamente diversa da quella dell’Illuminismo nella quale il pensiero era forte quanto il sentimento. La nostra epoca, come epoca di pensiero debole e di sentimenti forti (si ricordi il libro di Stéphane Hessel Indignatevi!) riscopre l’utopia e il sogno nel momento in cui le forme organizzative che le classi subalterne si erano date tra il XIX e il XX secolo si sono completamente disgregate e quello che ne rimane manca del mordente e del concreto peso politico che, in passato, ha obbligato le classi dirigenti occidentali alle maggiori riforme sociali.

Si invocano spesso, oggi, il sogno e l’utopia. Ma il sogno e l’utopia prive come sono di peso politico (di “forza contrattuale” come si diceva un tempo), sono forse matrici concrete di progresso? È lecito dubitarne. Si potrebbe dire che l’opinion pubblica sia una forza di pressione sufficiente per l’attuazione concreta dei diritti dell’uomo. Che l’opinione pubblica sia, di per sé la custode efficace dell’uguaglianza dei diritti è dubbio non soltanto per chi tiene presenti le osservazioni di Noam A. Chomsky sulla “fabbricazione” dell’opinione pubblica stessa, ma anche per il recente “vento di destra” che spira sul nostro pianeta e che è l’espressione di una cospicua parte dell’opinione pubblica mondiale. Del resto, già Fromm scriveva nel 1941: “il carattere sociale interiorizza le necessità esterne e così imbriglia l’energia umana a vantaggio delle mete di un determinato sistema economico e sociale” (Fuga dalla libertà, Milano, Edizioni di Comunità, 1963). Che è come dire: è esposto ai venti della propaganda, proprio perché considera relativisticamente ogni assunto etico e politico.

Proprio nella debolezza del pensiero si radica la fabbricazione dell’opinione pubblica: se tutto può essere vero, come recita il dogma relativista contemporaneo (la forma vulgata del pensiero debole), ecco che diventa agevole convincere fasce non indifferenti dell’elettorato che il problema capitale del nostro tempo, in Europa, non è l’avanzare delle diseguaglianze sociali, ma il “ricambio etnico” che sarebbe innescato dai flussi migratori, oppure il presunto aumento della criminalità dovuto alla presenza dei migranti. Si crea un sapere infondato e non documentato (tanto, si dice, ogni sapere è “senza fondamenti”), ma estremamente influente al momento delle elezioni. Jean-François Lyotard (La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1979) ha affermato che il sapere è diventato il fulcro della produzione configurando la nostra società come società dell’informazione. Ma il sapere che si sviluppa genera una concezione eterogenea e creativa della verità, secondo lo studioso francese.

Molte le verità, fine delle grandi filosofie della storia, fine dei grandi progetti di emancipazione dell’umanità di matrice illuministica. Fine delle “grandi narrazioni”, dell’universalismo e crisi dei progetti di natura cosmopolitica. A distanza di più di trent’anni si è tentati di vedere un valore profetico in queste affermazioni. La coscienza relativistica si accompagna allo sviluppo della globalizzazione; Zygmunt Bauman (Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2011) sostiene che nella globalizzazione lo spazio geografico e sociale è cancellato e i diritti sociali sono resi inattivi dal continuo spostamento dei capitali che si ‘fissano’ soltanto laddove trovano le condizioni favorevoli per loro, ma spesso sfavorevoli per i lavoratori. In questa situazione il turista è il cittadino ideale della postmodernità: egli si muove con facilità e velocità nello spazio globale; il vagabondo, ma anche il migrante, ne è l’“ombra”, costretto com’è a spostarsi per sussistenza o semplicemente per sopravvivere. Augé, in Vivere sotto la dittatura del presente afferma che “il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna.” L’uguaglianza dei diritti non è più senso comune com’era nel mondo “bipolare”, ma una opzione personale che si contrappone ad altre opzioni presenti nello spazio del mercato ideale e politico della cultura contemporanea. Un mercato ideale e politico dominato da una grande paura: la paura dell’”altro.” Un altro che non siamo tenuti ad aiutare, ma dal quale dovremmo “difenderci.” Il deficit di politiche di redistribuzione della ricchezza sociale, veri fulcri dell’uguaglianza concreta dei diritti, completa un quadro nel quale l’emarginazione sociale delle classi subalterne, migranti e non, potrebbe assumere a breve aspetti inquietanti o allarmanti. Senza una casa e senza un lavoro, quali opzioni ha un essere umano?

Un fenomeno che non si può gestire da soli

Il secondo problema è il carattere precipuo del fenomeno migratorio, tale da non potere essere gestito da un solo Stato: esso non ha confini; di fatto, per ragioni meramente geografiche, l’Italia, la Grecia e la Spagna sono le mete, almeno temporanee, dei maggiori flussi migratori; il problema è europeo e le politiche di accoglienza debbono risultare da una concertazione europea per essere davvero efficaci. Ma l’Europa, stando ai Trattati di Lisbona, non ha gli strumenti giuridici e politici per attuare una concertazione simile. Problema nel problema: i paesi del cosiddetto “gruppo di Visegrad” sono orientati al rifiuto di una assunzione di un ruolo attivo da parte dell’UE nella gestione dei flussi migratori (oltre che ostili a politiche di accoglienza).

L’azione dell’Unione Europea dipende prevalentemente, nelle materie non comunitarizzate, dall’accordo intergovernativo dei paesi che la compongono, un accordo che, in tali materie, come si vede, manca. Basta la presenza di un gruppo (anche piccolo) di paesi ostili a una certa modificazione dei Trattati europei a fermare qualsiasi decisione in tale senso. Dal 2014 a settembre 2017 oltre 15.000 sarebbero le vittime dei “viaggi della speranza” nel Mediterraneo. Nel 2018, fino a ora, sarebbero morte o disperse 1.540 persone (dati dell’UNHCR in https://data2.unhcr.org/en/situations/mediterranean ). A poco serve osservare che, per un buon numero di europei, questi dati non suscitano più emozione; “l’abitudine ha indurito loro il cuore” si potrebbe dire con l’Amleto di Shakespeare. Indignarsi, evidentemente, non basta: l’indignazione non è una politica di aiuto, anche se potrebbe esserne il presupposto psicologico. Ma gli strumenti politici, al momento attuale, gli strumenti del pubblico potere, in particolare, mancano.

Pare che lo sguardo non sia diretto alle guerre e alle carestie che sono all’origine dei flussi migratori. Le responsabilità occidentali in merito sono grandi e non da oggi. Per tralasciare l’epoca del neocolonialismo seguito immediatamente alla decolonizzazione è dagli inizi degli anni Novanta del XX secolo che il ruolo delle potenze occidentali in Africa e nel Medio-Oriente è quello di non contribuire al riequilibrio delle tensioni, con evidente marginalizzazione del ruolo dell’ONU.

Che sia un’utopia pensare a un mondo senza conflitti e senza guerre potrebbe anche andare da sé dopo le numerose repliche della storia al progetto kantiano della pace perpetua e dopo il fallimento della Società delle Nazioni alla fine degli anni trenta del XX secolo e la concreta inefficacia dell’ONU nell’ultimo settantennio. Non sono mancati progetti concreti come quello stilato da Otto Neurath nel 1942 (O. Neurath, L’utopia realmente possibile, Milano, Mimesis, 2016) e quello stilato da David Mitrany nel 1943 (D. Mitrany, Le basi pratiche della pace, Firenze, CET, 2013) per eliminare le cause di guerra nel mondo: l’integrazione reale dei mercati potrebbe costringere la politica ad abbandonare le armi, il governo mondiale dell’economia potrebbe, se democratizzato, contribuire alla stabilità mondiale. Purtroppo, le principali organizzazioni finanziarie internazionali funzionano come società per azioni in grande, non come democrazie politiche, più attente agli interessi dei loro ‘azionisti’ che non ai problemi della pace mondiale.

Ci troviamo di fronte a un mondo bloccato: c’è l’esigenza di una governance mondiale dei flussi migratori, ma non ci sono gli strumenti giuridico-politici per attuarla realmente; c’è l’esigenza di reali politiche di pace, ma non ci sono gli strumenti diplomatici ed economici in grado di attuarle. Le esigenze della ragione sono disattese dalla pratica politica.

Fino a quando?

Scrive per noi

TIZIANA CARENA
Tiziana C. Carena, insegnante di Filosofia, Scienze umane, Psicologia generale e Comunicazione, Master di primo livello in Didattica e psicopedagogia degli allievi con disturbi dello spettro autistico, Perfezionamento in Criminalistica medico-legale. È iscritta dal 1993 all'Ordine dei Giornalisti del Piemonte. Si occupa di argomenti a carattere sociologico. Ha pubblicato per Mimesis, Aracne, Giuffrè, Hasta Edizioni, Brenner, Accademia dei Lincei, Claudiana.