Questa vignetta di Biani (a lato) illustra una mia riflessione per i teorici della sesta estinzione i cui sintomi potrebbero essere questi: gli umani si ammalano e quelli che non guariscono muoiono; le piante crescono favorite anche dal clima primaverile; gli animali, totalmente esenti da virus, prolificano.
L’etologo Enrico Allevi ricorda che dopo ciascuna delle estinzioni che hanno preceduto, l’ipotetica sesta, c’è stato un “rigoglio evolutivo”. Cioè la rinascita dell’ambiente originario pur se profondamente modificato almeno in alcune delle sue componenti liberate dalla ingombrante presenza di quelle scomparse.
Quale sarebbe il “rigoglio” se la sesta estinzione fosse quella del genere umano? Enrico Alleva nota che «quando gli uomini abbandonano zone coltivate, lasciano agli animali un’esplosione di risorse».
«Le viti o gli alberi da frutto producono certo di meno senza la cura degli agricoltori, ma lasciano i loro prodotti agli animali. Uccelli e roditori se ne nutrono, favorendo così i serpenti che sfamano a loro volta i rapaci». Insomma «quando l’uomo va via, il bosco si espande. Gli scoiattoli sotterrano le ghiande e poi le dimenticano». «Idem fanno le ghiandaie. Gli alberi crescono, a meno che il capriolo con i suoi denti a scalpello non li mangi da piccolo. E anche altre specie come lupi e cinghiali aumentano di numero».
Quindi se l’umanità volesse autodistruggersi sino ad estinguersi s’odrebbe “augelli far festa”, ma non toccherebbe a noi ascoltarli. Perché la “festa” deriverebbe dalla scomparsa della causa stessa che aveva prodotto l’estinzione. Ebbene, è fondamentale allora ricordarci che la sesta estinzione, quella il cui rischio si ipotizza di star vivendo, è il prodotto dei nostri disumani comportamenti.
L’uscita dal Coronavirus deve tener conto anche di questo.