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Apocalisse: l’essere umano di fronte ai suoi atti

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 4 minuti

Apocalisse: l’essere umano di fronte ai suoi atti
Apocalisse non è catastrofe, ma, etimologicamente, rivelazione, disvelamento. Apocalisse di Lucilla Giagnoni (visto al Teatro Astra di Torino) fa dialogare letteratura, teologia e scienza. “Il teatro è la vita sotto la lente di ingrandimento” afferma Lucilla Giagnoni protagonista di Apocalisse. Nei suoi spettacoli letteratura, teologia e scienza dialogano, come si legge in una intervista a […]

Apocalisse non è catastrofe, ma, etimologicamente, rivelazione, disvelamento. Apocalisse di Lucilla Giagnoni (visto al Teatro Astra di Torino) fa dialogare letteratura, teologia e scienza.

“Il teatro è la vita sotto la lente di ingrandimento” afferma Lucilla Giagnoni protagonista di Apocalisse. Nei suoi spettacoli letteratura, teologia e scienza dialogano, come si legge in una intervista a Andrea Piazza. La teatralizzazione avviene alla luce del mito che “inanella” una serie di fatti, i fatti quotidiani, di per sé privi di senso, narrati dalla storia, come fanno, del resto, anche la scienza e la teologia.  Nello spettacolo dell’Apocalisse le tre forme di narrazione si uniscono in una voce unica: la scienza narra della distruzione della biosfera, la storia narra delle guerre incessanti, la teologia offre l’“apertura di senso”:

Apocalisse non è catastrofe, ma, etimologicamente, rivelazione, disvelamento come dichiara dal palco Lucilla Giagnoni. Ultima parte di una trilogia stimolata dall’ attentato alle “Torri Gemelle” dell’11 settembre 2001 e articolata nello spettacolo Vergine madre, sul percorso di salvezza delineato nella Divina Commedia e nello spettacolo Big Bang che indaga sulla creazione a partire dalla Genesi, essa affronta il problema del senso dell’”esser qui”. “Esser qui” per trovarsi di fronte a quello che si è, cioè al disvelamento come specie che agisce nella storia.

La rovina attuale è opera non di agenti esterni, ma degli esseri umani stessi

Asse portante dello spettacolo, il confronto fra Edipo (nell’Edipo Re di Sofocle) e Giovanni di Patmos (nell’Apocalisse, l’ultimo dei libri della Bibbia cristiana) basata, appunto, sulla idea di disvelamento. Ma anche sulla nozione di colpevolezza, nel caso di Edipo, e di testimonianza, nel caso di Giovanni di Patmos. Edipo cerca affannosamente l’assassino di re Laio, perché la pestilenza ha colpito Tebe e durerà finché non si troverà il colpevole; ma quando egli scopre che lui stesso è il colpevole cadono i veli, e quando cadono i veli Edipo è finito.

La riprova che Edipo, però, è qualcosa di più che un assassino si ha nell’Edipo a Colono, perché, nel bosco sacro di Colono, Edipo viene accolto fra gli dèi. Perché? Perché egli ha affrontato il disvelamento elevandosi al di sopra della dimensione comune e rassegnata al falso della maggioranza degli esseri umani. Nel caso di Giovanni di Patmos le cose stanno diversamente, perché la rivelazione che egli accoglie lo obbliga a togliere i veli ai peccati commessi dalle più diverse categorie di esseri umani; un messaggio per il nostro tempo nel quale possiamo dire che l’uomo è causa della propria rovina, del cambiamento climatico, delle guerre continue, della dissoluzione dei rapporti sociali fondamentali in nome del profitto, ma si ostina a velarsi di fake news, di narrazioni autoconsolatorie.

La rovina attuale è opera non di agenti esterni, ma degli esseri umani stessi. Come ha scritto Kant, lo “stato di minorità dell’uomo” va imputato all’uomo stesso. E l’essere umano deve saperlo, deve assistere all’apocalisse. Nel momento in cui l’apocalisse fosse vero disvelamento, ci sarebbe la possibilità di un mondo nuovo, diverso.

A partire da Nietzsche, tutta la filosofia è disvelamento, smascheramento, cioè apocalisse, svelamento della realtà ed eliminazione delle maschere ideologiche per aprire l’orizzonte della libertà autentica; Freud smaschera le cause reali del disagio dei suoi pazienti nevrotici smontando le costruzioni simboliche della nevrosi che coprono il rimosso: lo svelamento degli eventi rimossi genera la guarigione.

L’universale viene fuori attraverso il sogno

Marx smaschera (con la critica delle ideologie) le cause reali dei conflitti sociali risalendo alle basi stesse del comportamento umano e cercando di individuare le forze che potrebbero portare a una società finalmente umana. Una conferma del saggio Nietzsche, Marx, Freud (1964) di Michel Foucault?

Ma, nel quadro dell’Apocalisse c’è, forse, ben altro. Archetipi e universali che si svelano nell’irrazionale supremo che è il sogno, padre del mito, direbbe Jung, un sognare a occhi aperti, una congiunzione tra coscienza e incoscienza. Qui l’universale viene fuori in noi attraverso il sogno e attraverso la testimonianza teatrale: quindi è già patrimonio culturale.

Patrimonio culturale: certamente noi, come umanità, ne siamo gli artefici; ma perché esprimerlo in forme simboliche anziché descrittive? Il disvelamento non è mai piacevole. Per Edipo, questo è certo: scoprirsi parricida e incestuoso è il colmo dell’orrore. Nel caso di Giovanni di Patmos, il giudizio universale è angosciante perché è difficile trovare qualcuno che, secondo la legge del Signore, possa dirsi assolutamente giusto. Ognuno è colpevole delle azioni collettive, perché la collettività è composta da individui naturalmente responsabili delle loro azioni e, naturalmente, fallibili.

Se c’è una significanza genetica dell’irrazionale, del sentimento, del valore, non è solo l’imperativo categorico kantiano a contare, qui, e si può dire che se l’universale in senso antropologico imperativo agisce in noi, la figura del Nazareno è chiara: tutto quello che è, c’è e sarà, deve avvenire e avviene e si manifesta. Se non c’è Giuda, non c’è resurrezione e non c’è la purificazione attraverso lo spirito né lo spirito che diventa eletto. Disvelamento come verità, direbbe Heidegger, ottenuta con un metodo non meno radicale di quello fenomenologico di Husserl. Questo “denudare il fenomeno” mette a disagio perché l’oggetto del disvelamento, il fenomeno, è il comportamento umano. Lucilla Giagnoni, nel suo monologo afferma di non essere né filosofa, né teologa; ma dalle sue parole, non meno che dai suoi gesti, prende corpo il vissuto filosofico e teologico dell’Apocalisse di Giovanni di Patmos.

Svelamento dell’universale

Il teatro ha una funzione catartica rispetto al disvelamento, come ha scritto Aristotele nella Poetica: vedendo svelarsi le forme della verità sulla scena, siamo più indotti a svelarci, siamo indotti a toglierci la maschera. Delarvatus prodeo potrebbe essere il motto di chi accoglie il disvelamento, “avanzo senza maschera”. Homo larvatus a ratione delarvatus, come titolava un suo dramma musicale Gregor Schreier nel 1759. La ratio è la ratio teatrale. Edipo è una figura teatrale, Giovanni di Patmos è una figura “da pulpito”; ma che cos’è un pulpito se non, anche, un palcoscenico teatrale? E non è forse il teatro una liturgia, al tempo di Sofocle, come oggi? Il teatro, come il pulpito, è popolare, in esso scompaiono le disuguaglianze sociali. Il teatro antico purifica dalle passioni il popolo, così come il testo apocalittico purifica il popolo dalle autoillusioni.

La storia dell’apocalisse è storia sacra; in essa si attua il volere di Dio. Edipo, come uomo comune, avrebbe fatto a meno dello svelamento, e Giovanni di Patmos avrebbe fatto a meno, come uomo comune, della rivelazione. Ma lo svelamento dell’universale rende l’essere umano parte di un processo assolutamente necessario di autocoscienza che non può non svolgersi, quasi nei termini di un’esperienza che c’è già. Sulla scena, non meno che nella vita quotidiana: la meccanica della trama teatrale, non meno che la meccanica della storia, mette ognuno di fronte al disvelamento del senso delle proprie azioni: montagne di plastica nei mari, morti innocenti nelle guerre, scomparsa di specie viventi. La coscienza ecologica, in questo senso, è realmente apocalittica. Strano che questi universali, che ci spingono a salvare il pianeta, che sono in noi, siano ancora così sopiti e velati.

Non a caso, Lucilla Giagnoni conclude il suo monologo con l’affermazione: “Siamo tutti figli!” della stessa terra, potremmo aggiungere noi, come spettatori.