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E alla quarta: ecologia, economia, estetica ed etica. Riflessioni per un’Antropologia del Simbiocene.

| IPPOLITO OSTELLINO

Tempo di lettura: 37 minuti

Conferenza aperta di sabato 30 settembre 2023 nell’ambito di “IN-FINITA NATURA. Earth our home” di Karina Chechik a Torre Pellice (To). Qui di seguito la versione integrale.

Appellarsi alla difesa della natura, alle leggi ed alle convenzioni internazionali come ai programmi educativi, non ferma il declino della natura e la crescita di consapevolezza ecologica stenta ad affermarsi, lasciando ampio spazio al dominio del potere economico e del mercato, come alle guerre, e con loro alla tentazione negazionista di ridimensionare il reale peso dell’umano nell’alterazione del Pianeta Terra. Occorre aprire, secondo il percorso di ricerca qui descritto, un fronte ibrido tra ecologia ed estetica –  frequentando i nuovi saperi ed autori ibridi tra ecologia, antropologia, filosofia ed ermeneutica della storia umana – per riformare il posto e l’agire dell’individuo e delle società umane nella policrisi ecologico-sociale contemporanea, partendo dall’assunto che oggi non siamo semplicemente in una crisi ecologica, ma in una crisi estetica.

Nel percorrere l’analisi qui proposta, propongo di vedere questa clip che aiuta a contestualizzare in che ordine di tempo e spazio ci muoviamo parlando intorno alla presenza della specie umana sul Pianeta Terra:

 

Le profondità di un problema.

Giuseppe Longo in un suo saggio intorno alle questioni della robotica scrive:” … ho proposto una definizione operativa, anche se discutibile, di estetica e di etica:

  • L’estetica è la percezione soggettiva (ma condivisa) del nostro legame con l’ambiente, legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica.
  • L’etica è la capacità, soggettiva e intersoggettiva, di concepire e compiere azioni capaci di mantenere sano ed equilibrato il legame con l’ambiente.”

Questa congiunzione tra etica, estetica ed ambiente permette di proporre, a parere di chi scrive, un’analisi più radicale e profonda dei problemi che si celano dietro la “questio ecologica” e dei pesi che questo tema sta oggi rappresentando per la società contemporanea: la scelta di sviscerare la problematica in modo più radicale, deriva dalla constatazione che il problema della convivenza con il Pianeta Terra non rappresenta solamente difficoltà di ordine economico ed ecologico, ma interessa sfere più complesse e profonde del vivere umano, che abitano nelle dimensioni antropologiche e psicologiche della nostra esistenza.

Karina Chechik – Un laberinto de simbolos.

Non abbiamo, infatti,  messo in crisi solo le dinamiche climatiche e dell’atmosfera, dell’uso dei suoli, degli equilibri termici degli oceani, dei tassi di estinzione delle specie, della stessa estinzione di un numero sempre crescente di specie, degli equilibri numerici delle popolazioni viventi soprattutto animali, dell’omeostasi degli ecosistemi naturali a causa della continua loro diminuzione in termini spaziali e delle quantità delle risorse utilizzabili nei campi delle acque, dell’aria e del suolo.

Abbiamo anche generato alterazioni nella crescita dell’individuo umano, giungendo ad acclamare persino sindromi della salute oggi denominate sotto le categorie dell’ecoansia e della solastalgia, che sempre di più fanno sentire la loro voce: la prima legata alle disfunzioni connesse alla paura del futuro della nostra esistenza sul Pianeta, la seconda invece connessa ad una ansia che deriva dal perdere il contatto attuale con il mondo che ci circonda nel quale non ci riconosciamo più.

Potremmo, anzi, sostenere che le basi etiche, morali e quindi estetiche che sono proprie del nostro vivere contemporaneo sono state orientate ad assumere modus e posture tali da rendere possibile l’intera crisi ecologica, creando un circuito perverso che legando principi ad azioni ha determinato un atteggiamento distruttivo nei confronti dell’ambiente che ci ospita. È quindi forse opportuno investigare in termini più vasti le ragioni del nostro attuale disadattamento alla vita sul Pianeta, evitando di limitarsi ad individuare motivazioni esterne e tecniche, ed esplorando anche le dimensioni interne estetiche ed etiche.

Il rapporto tra ecologia e questioni etiche ed estetiche è peraltro un filone emergente nella letteratura e ricerca contemporanee, nelle quali le scienze umane, dalla filosofia, all’etica all’estetica, sino ai campi dell’antropologia, si intrecciano tra di loro e con le scienze della natura, in percorsi che ad esempio seguono le discipline come le scienze umanistiche ambientali, costruendo ponti anche verso le dimensioni dell’espressione artistica, creando nuove narrazioni alla ricerca di un nuovo “fare”. E’ recente la riedizione in merito dell’importante saggio di Paolo D’Angelo “Estetica della natura” che offre un quadro completo della storia recente del dibattito in merito. A queste “nuove visioni” questo contributo consiglia di rinviare le nostre riflessioni, in un itinerario in qualche modo “spregiudicato” che comprende al suo interno anche una rivisitazione delle nostre tradizionali modalità di “trattare” quanto ci circonda, rivedendo le categorie della percezione e della definizione del reale.

Kim Anderson. Solastalgia

Le risposte tradizionali

La questione ambientale intesa come crisi del rapporto uomo-natura è tema divenuto di primo piano, dopo secoli di allarmi lanciati da pensatori sempre inascoltati dalla società cosiddetta moderna. Ma a fronte di questa dichiarata emergenza, quali sono le soluzioni immaginate più diffuse per risolverla? Per ora sono state sostanzialmente tre.

La prima, forse banale agli occhi di chi è consapevole dei problemi esistenti ma tutt’altro che da sottovalutare, è il negazionismo. Quale migliore soluzione, di fronte all’evidente aumento dell’impronta umana sulla Terra, ricondurre le alterazioni climatiche a normali trand naturali ed oscillazioni, che liberano la sporca coscienza dell’umano dalle sue responsabilità. Oggi la pervasività dello strumento social mediatico, che si accompagna con la perdita della professionalità di “coloro che sono titolati a raccontare” (essendo tutti in grado di pubblicare ogni idea sulla rete senza la presenza di un filtro professionale giornalistico), ha determinato la perdita della capacità critica e il sempre più diffuso atteggiamento di “adeguarsi” a quanto sostenuto dai canali comunicativi, sulla cui autorevolezza non viene più domandato nulla. D’altro canto muoversi nella conoscenza dei problemi di oggi, è divenuta pratica molto complessa, perché alquanto complesso è il sistema di problemi che sono di fonte all’abitante (o cittadino).

La definizione di “policrisi” data da Edgard Morin, riassume questo stato “info-ansioso”, dove le dimensioni ecologica, economica, sociale, sanitaria, climatica, politica e financo etica e culturale quasi si sciolgono una nell’altra senza riuscire a ricostruire una possibile loro armonizzazione. Invece di affrontare una complessa nuova era di ricostituzione antropologica dell’umano, meglio e più semplice negare, come lo struzzo, rinviando in realtà il tempo nel quale risolvere le gravi distonie umane.

Lo stesso fenomeno negazionista, che promuove anche pericolosi percorsi di riscrittura della storia come anche il sentire sociale e delle minoranze – ricondotte in un alveo di fenomeni marginali e quindi non meritevoli di “valore” – si basa sull’estrema semplificazione, come accade per la questione climatica, che viene letta da sola nel tentativo di escludere tutte gli altri segnali evidenti dell’alterazione del Pianeta ad opera della società umana, in particolare occidentale, primi tra tutti il declino della biodiversità terrestre e marina, la riduzione della consistenza numerica delle popolazioni delle singole specie dei viventi a terra e mare, il consumo dei suoli e la loro antropizzazione pressoché totale ed infine l’aumento della massa dei prodotti umani rispetto alla biomassa terrestre.

La seconda è quella dell’apparato degli obblighi, l’adozione di leggi che costringono la comunità ad adottare comportamenti corretti rispetto alla natura e all’ambiente. Accordi internazionali, protocolli di collaborazione, tutti documenti che sono anche stati ispirati alla libera adesione e che non sempre hanno previsto per di più contenuti di natura sanzionatoria. Costosi apparati di controllo sono stati insediati. Sistemi di vigilanza, polizie ambientali e non ultimi gli uffici per il recupero delle sanzioni eventualmente comminate con conseguenti aspetti di natura legale, contenziosi presso i tribunali che comportano ulteriori costi e tempi di sviluppo etc. (dati del rapporto su Leggi e Ambiente dell’ONU).

I risultati di tutta questa azione di contrasto, non sono stati quelli sperati a partire dai primi accordi degli anni ’70, sino al secondo decennio degli anni 2000: parliamo di cinquant’anni di azione che non sta invertendo il processo di miglioramento delle condizioni ecologiche del pianeta, nonostante dal 1972 a oggi siano stati istituiti 1.100 accordi intergovernativi per la tutela ambientale, 88 Paesi abbiano introdotto nella propria Costituzione provvedimenti a favore di un ambiente sano, ben 65 abbiano inserito norme ad hoc per la protezione dell’ambiente, oltre 50 nazioni abbiano provveduto ad  istituire 350 tribunali e corti ambientali in tutto il mondo, e considerando che dal 2017 a oggi ben 176 Paesi (dei 208 che compongono gli stati mondiali) abbiano varato leggi quadro ambientali.

In questo ambito ricadono anche tutte le politiche volte alla conservazione e tutela della natura, con le istituzioni di aree protette di diversa natura e tipologia. Un impegno che supera in alcuni casi di gran lunga il mero dato quantitativo, in considerazione del fatto che le istituzioni delle aree protette quanto ispirate da un progetto culturale evoluto, rappresentano luoghi di elaborazione intorno alle culture della conservazione e non solo alle loro tecniche. Anche qui i dati non sono incoraggianti, stante quanto viene riportato  dall’ultimo report Protected planet report, il colossale studio biennale con cui il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep) e l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) nel quale viene fatto il punto sulle aree protette del nostro Pianeta.

Ci sono buone notizie da un lato: negli ultimi dieci anni l’estensione complessiva delle aree protette marine e terrestri è aumentata di 21 milioni di chilometri quadrati, all’incirca l’estensione della Russia. Ma c’è ancora molto lavoro da fare, in quantità e soprattutto in qualità. Lo testimonia il dato che riguarda  il mancato raggiungimento da parte della comunità internazionale di nessuno dei 20 obiettivi di biodiversità di Aichi concordati in Giappone nel 2010 per rallentare la perdita del mondo naturale, rianalizzati  nella COP 15 di Montreal. Il Global Biodiversity Outlook 5 ha rilevato che, nonostante i progressi in alcune aree, gli habitat naturali hanno continuato a scomparire, un gran numero di specie rimane minacciato di estinzione a causa delle attività umane e 500 miliardi di dollari (388 miliardi di sterline) di sussidi governativi dannosi per l’ambiente non sono stati eliminati.  Una tendenza che quotidianamente collezioni notizie non edificanti e che ad esempio sono monitorate dall’inserto speciale del The Guardian “L’era delle estinzioni”

Ecomafie e reati ambientali, il report di Legambiente: Brescia prima in Lombardia

C’è poi non ultimo l’approccio, quello della “sostenibilità” o “sviluppo sostenibile”, qui inteso come tormentone economicista secondo il quale la soluzione risiede nell’aderire in toto alle proposte che l’economia dell’acquisto di beni e servizi ci propone: auto elettriche al posto di quelle a combustibili fossili, detergenti solidi al posto dei flaconi di plastica, cosmetici, abbigliamento, cibi, tutto rigorosamente a basso impatto, salvo doversi destreggiare in una giungla di verifica dei contenuti “eco”, meno e più aderenti a policy “ecosostenibili”.

Un filone questo che comprende anche tutto il versante dell’azione delle cosiddette “compensazioni”: inquino producendo beni e fornendo servizi, ma “ritorno” all’ambiente il mio danno, allestendo campi solari, piantando alberi o altri servizi ambientali di ultima invenzione. E’ questo un filone che ha dato anche sfogo alla questione del greenwashing ed alle pratiche di natura aziendale e di marketing che cavalcando la narrazione dei media sulla questione ecologica, utilizzano questo nuovo asset come strategia di vendita sul mercato.

Nel suo insieme questo campo, non scevro da insidie, ha già sviluppato azioni di policy di controllo: La Federal Trade Commission (FTC) americana è stata la prima a stilare, negli Anni Dieci del Duemila, delle linee guida per l’utilizzo di environmental marketing claims che impongono alle aziende chiarezza e trasparenza, non solo nel definire entità e portato del proprio impegno, ma anche, per esempio, nelle scelte stilistiche e linguistiche.

Questo approccio comprende anche le azioni che possiamo definire virtuose di una “green economy”, nella quale i valori e i rapporti tra benefici, investimenti e uso del capitale naturale, tengono in considerazione il bilancio complessivo delle attività, e non solo e banalmente la redditività dei capitali (in questo campo ricade anche il filone della blue economy, che prevede non solo la riduzione delle emissioni di CO2 ma il raggiungimento del livello zero). Sono quindi in questa attività ricomprese quelle aziende che lungi dal praticare il greenwashing applicano un’etica commerciale dove il bilancio interno dei profitti viene parametrato con quello esterno ovvero delle cosiddette esternalità e ricadute sul territorio. Bilanci sociali, di sostenibilità ed altri strumenti sono quindi usati per orientare e in qualche misura controllare quella tendenza per certi versi troppo facilitata dalla economia irresponsabile. Rientra in questo campo tutta l’elaborazione intorno ai temi del riuso e del riciclo che costituiscono certamente una pratica e una risposta virtuosa e necessaria (con esempi di adozione di regole in tal senso), ma per le quali occorre affermare il senso della loro scelta non per meri motivi di utilità, ma per ragioni etiche.

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Ma queste risposte, che potremmo denominare come una accoppiata soluzione ecol-economica razionale, incontrano difficoltà ad affermarsi (l’impegno ecologico come quello economico) tali da spingerci a spostare, o se vogliamo arricchire, la nostra faretra di altre dimensioni di risposta, che non stanno fuori di noi, ma che abitano all’interno di noi, e interessano le dimensioni morali, i credi e le convinzioni che abbiamo, per provare a capire se a questo livello non sia il caso di intervenire, cercando soluzioni più radicali e profonde ad un vivere ecologico fatto di precognizioni diverse da quelle che abbiamo utilizzato sino ad ora: sono le dimensioni estetiche ed etiche, quelle antropologiche, che possono rappresentare le fondamenta di un nuovo sentire capace davvero di dare continuità e maggiore profondità alle azioni classiche, forse anche superandole, in quanto collocate in uno scenario ideale diverso. Si potrebbe profilare quindi la ricerca di una soluzione mista, razionale e insieme etica, in cui quest’ultima sia alimentata da una sua estetica ecologica.

Ci si riferisce ad un importante movimento internazionale che sta portando novità nel campo della questione rapporto uomo-natura, e che sta proponendo una inversione intanto dei termini, ovvero del rapporto natura-umanità, e una rifondazione concettuale della conservazione oggi considerata ostaggio di una idea “colonialista”. Vedasi in proposito l’interessante esperienza ed elaborazione del filone della “Conservazione conviviale”. 

Proprio Robert Fletcher, che  guida il progetto Transformations to Sustainability “CON-VIVA: Towards Convivial Conservation: Governing Human-Wildlife Interactions in the Anthropocene”, in un illuminante intervento sull’International Science Council,  propone una riflessione che rappresenta l’incipit di questo articolo: “Sono state avanzata una serie di proposte per perseguire questa trasformazione (ndr. quella ecologica) , alcune delle quali sono state sostenute come base per un quadro post-2020. Il più importante di questi piani rappresenta due approcci generali diametralmente opposti alla conservazione: espandere e collegare notevolmente il sistema globale delle aree protette, implementando gli spazi “non umani” per la prosperità delle specie “non umane”, con lo spostamento delle comunità umane esistenti nei contesti del Pianeta dei grandi spazi africani etc…; o invece integrare più direttamente la conservazione con lo sviluppo, sottoponendo la biodiversità alla valutazione economica e alla contabilità tradizionali. Queste proposte provengono da una comunità globale di conservazione sempre più preoccupata per la disastrosa incapacità delle politiche tradizionali di fermare l’accelerazione della sesta estinzione. Ci sono elementi utili in entrambi gli approcci, ma riteniamo che siano profondamente problematici e in definitiva controproducenti. Alcune delle nostre preoccupazioni sono state delineate in particolare nel volume The conservation revolution , ma un problema essenziale è che entrambi non riconoscono e non affrontano la connessione tra il capitalismo e il profondo senso di alienazione dalla natura non umana su cui fonda l’esperienza umana. “

Con questo obiettivo occorre chiarire prima la questione ecologica e quella economica nelle sue rispettive dimensioni, per tenere bene a mente cosa si stia facendo e quale sia il peso delle risposte da adottare.

Le dimensioni del problema ecologico.

I temi che si affastellano intorno al tema ecologico ed alla trattazione corrente della questione ambientale in senso lato sono molteplici e interconnessi tra di loro, e per ognuno di questi è bene raccogliere qui una serie di elementi che permettano di focalizzarli non singolarmente ma nella loro crisi integrata, che possiamo ricondurre come ai 6 vertici di un esagono: riduzione quali quantitativa dei viventi, velocità estinzione, riduzione quali quantitativa degli ecosistemi, suolo e superfici marine sfruttate dall’uomo, massa produzione di beni sul Pianeta.

Il calo quantitativo della quantità di individui delle popolazioni naturali. L’edizione 2022 del Living Planet Index, che analizza 32mila popolazioni di oltre 5mila specie, mostra un calo medio del 69% delle popolazioni di specie di vertebrati – mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci – analizzati dal 1970 al 2018. Le popolazioni d’acqua dolce mostrano un allarmante calo dell’83%. In America Latina e Caraibi i peggiori trend per la perdita di biodiversità, con un calo medio del 94% dal 1970. Nello stesso periodo, le popolazioni monitorate in Africa sono diminuite del 66%, in Asia-Pacifico del 55%, in Nord America del 20%, mentre l’Europa e l’Asia centrale hanno registrato un calo del 18%. Un milione di piante e animali è a rischio di estinzione. Una percentuale tra l’1 e il 2,5% delle specie di uccelli, mammiferi, anfibi, rettili e pesci si è già estinta. L’abbondanza delle popolazioni e la diversità genetica sono diminuite e le specie stanno perdendo i loro habitat, fattore che interessa anche in modo preoccupante il grande ordine degli Insetti, come testimoniato da ricerche di recente pubblicazione come quella di Florian Menzel, Martin Gossner, Nadja Simons su Biology letters.

Il calo del numero delle specie, ovvero riduzione della biodiversità. L’attività antropica ha già determinato la scomparsa di almeno 680 specie di vertebrati dal 1500 a oggi. Quella dell’estinzione è purtroppo una minaccia che non dà segnali di arresto ma che, al contrario, si ingigantisce sempre di più. Secondo la Lista rossa Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) è a rischio estinzione circa il 25% dei gruppi di popolazione formati da vertebrati, invertebrati e piante terrestri, d’acqua dolce e marini.

Più del 40% delle specie di anfibi, quasi un terzo dei coralli e degli squali, e oltre un terzo dei mammiferi marini, sono attualmente minacciati. Per gli insetti ci sono maggiori difficoltà a ottenere una stima accurata, dato che siamo in presenza di quella che viene definita una “apocalisse silenziosa”, tuttavia almeno il 10% dovrebbe essere oggi a rischio.

Un fenomeno che in particolare assume una dimensione preoccupante se guardiamo proprio all’area biologica delle specie di insetti e della fauna e flora minore, che costituiscono la base di biomassa fondamentale sulla quale la restante parte della catena biologica poggia la sua esistenza.

L’aumento del tasso di estinzione delle specie. La neo-estinzione è l’estinzione causata dall’azione dell’uomo, sia diretta (caccia, pesca ecc.) che indiretta (introduzione di nuove specie, inquinamento, distruzione dell’habitat, ecc.). Dal 1500 ad oggi 322 specie si sono estinte a causa dell’uomo solo tra i vertebrati (Dirzoet al. 2014).  Il tasso di estinzione determinato dalle attività umane potrebbe essere da 10 a 100 volte maggiore rispetto al tasso di estinzione di fondo. E si stima che nel prossimo futuro questo tasso potrebbe crescere fino a 10000 volte più del tasso di fondo. (Neo-estinzione McCauley et al. 2015)

L’estinzione di fondo è il tasso normale di scomparsa delle specie, cioè il livello di estinzione ‘fisiologico’ sempre presente in un ambiente. Questo dipende da vari fattori che influenzano la durata della vita dell’intera specie, come ad esempio le interazioni con le altre specie (es. predazione, competizione), le variazioni climatiche ed ambientali su piccola scala, l’ampiezza dell’area di distribuzione. Tasso di estinzione di fondo Sulla base dei resti fossili la vita media di una specie si aggira intorno a 1-10 milioni di anni. Quindi, su un milione di specie, il tasso di estinzione di fondo (per cause naturali) è di circa 0,1-1 specie all’anno. Considerando che il dato fossile è incompleto e frammentato, cautelativamente consideriamo mediamente 1 estinzione all’anno per ogni milione di specie. Se supponiamo che ci siano da 2 a 5 milioni di specie (con una stima conservativa), dovremmo aspettarci un tasso medio di estinzione da 2 a 5 specie all’anno in totale.

Velocità delle trasformazioni e riduzioni degli ecosistemi. Da pochi anni anche l’organizzazione mondiale della conservazione della natura ha iniziato un’attività di monitoraggio più esteso che interessa non solo le specie ma anche gli ecosistemi, ovvero i contesti ambientali ed ecologici che rappresentano gli habitat che permettono alle singole specie di poter vivere. La Lista rossa degli ecosistemi è quindi ormai un tema di nuovo interesse che permette di definire la situazione a livello globale, dove sono già registrati i gravi danni di conservazione per gli habitat del Madagascar, della barriera corallina e delle aree boscate del Centrafrica. (approfondisci)

Massa della produzione della società umana. Con il 2020 come comunità umana sul Pianeta abbiamo guadagnato un ulteriore primato: i ricercatori del Weizmann Institute of Science, in Israele, con il lavoro pubblicato su Nature, affermano che dal 2020 il peso dei manufatti umani ha superato il peso complessivo di tutti gli esseri viventi del pianeta.  Se questa tendenza non verrà invertita in breve tempo nei prossimi anni la situazione potrebbe sfuggire di mano: mantenendo l’attuale ritmo di produzione, secondo le previsioni entro il 2040 la massa antropogenica umana (inclusi i rifiuti) supererà le 3 Tt, un valore triplo rispetto a quello della massa di tutti gli esseri viventi. Un evento senza precedenti, del quale non conosciamo le possibili conseguenze.

Quantità di suolo e superficie marina utilizzata a fini produttivi. A 14 anni dalla pubblicazione dell’ultimo report del MEA (Millennium Ecosystem Assessment) riguardante la salute degli ecosistemi del pianeta e le strategie di conservazione e di uso sostenibile delle risorse, l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha elaborato una nuova sintesi globale dello stato attuale della natura. Dal 1900, l’abbondanza di specie terrestri autoctone (cioè originarie dell’ambiente in cui vivono) è diminuita almeno del 20%; il 75% degli ambienti terrestri e il 66% degli ambienti marini sono “alterati gravemente” dalle azioni umane e più dell’85% delle aree umide sono scomparse dal 1700 al 2000; più del 55% degli oceani sono soggetti alla pesca industriale e il 33% degli stock ittici nel 2015 sono stati pescati in modo non sostenibile; più di 1/3 della superficie terrestre e circa il 75% delle acque dolci sono impiegate nell’agricoltura, nell’allevamento e nell’acquacoltura. Altri studi permettono di affinare sempre di più la conoscenza sullo stato globale dell’uso del pianeta. Sono condizioni generali che oggi sono anche consultabili attraverso diverse piattaforme on line come quella dello stato delle foreste globale.

Alterazione stato dell’atmosfera e dal cambiamento climatico alla crisi climatica. Lo studio “Globally resolved surface temperatures since the Last Glacial Maximum”, pubblicato su Nature da un team di ricercatori statunitensi guidati da Matthew Osman del Department of Geosciences dell’università dell’Arizona – Tucson,  ha ricostruito il clima della Terra dall’ultima era glaciale, circa 24.000 anni fa, mettendo così in evidenza i principali fattori del cambiamento climatico e quanto l’attività umana abbia spinto oltre i limiti il ​​sistema climatico. I principali risultati dello studio sono stati cha: la verifica che i principali driver del cambiamento climatico dall’ultima era glaciale sono l’aumento delle concentrazioni di gas serra e il ritiro delle calotte glaciali; Una tendenza generale al riscaldamento negli ultimi 10.000 anni, mettendo un punto fermo nel dibattito decennale nella comunità di paleoclimatologia sul fatto che questo periodo sia stato più caldo o più freddo: L’entità e la velocità del riscaldamento negli ultimi 150 anni superano di gran lunga l’entità e la velocità dei cambiamenti negli ultimi 24.000 anni. (vedi anche qui)

Siamo di fronte ad una crisi complessiva che E.O. Wilson ha riassunto nel modello HIPPOIl famoso scienziato Edward O. Wilson, nel 2002, ha coniato l’acronimo HIPPO per indicare le principali cause che contribuiscono maggiormente alla perdita di biodiversità [2] . L’acronimo identifica le seguenti minacce ambientali provocate dall’uomo: perdita di habitat , specie invasive , inquinamento , popolazione (umana) , sfruttamento eccessivo .

Le misure per contrastare, in concreto, la crisi ecologica il cui volto assume i connotati prima descritti, sono oggi quelle prima elencate sinteticamente, salvo il negazionismo, e che vanno sotto la coppia delle categorie “Leggi” ed “Economia Verde”.

Le dimensioni del problema economico-sociale.

L’immagine di oggi sul rapporto uomo natura non è purtroppo quella che in seguito agli anni ‘70 e ‘80 ci si immaginava di giungere: non è quella di due soggetti seduti ad un tavolo che dialogano, con quello più alto, la natura, che dialoga con quello più basso, l’uomo (che tiene ben distante dal tavolo la donna) che ascolta e che inizia dopo un po’ a capire la forza e l’intelligenza che ha di fronte. È piuttosto l’immagine di un ring dove l’uomo fa a cazzotti con la natura, con il coach all’angolo che fa ben attenzione a non essere sostituito da chi vorrebbe scendere dal ring per sedersi ad un tavolo.

Ora, la natura distruttiva umana ha creato una sequenza di miti e teorie che si sono sviluppate nel continente europeo a partire dall’avvio massiccio del modello economico estensivo che possiamo far coincidere con l’inizio dell’espansione dei paesi europei in tutto il globo.

Per le quali obiettivo della società umana deve essere quello di accumulare ricchezze, unica strada per il benessere. Benessere economico uguale benessere della persona. Ma questo modello non ha tenuto conto di intervenire su un sistema ad altissima complessità. È purtroppo il risultato dell’applicazione semplificata dell’approccio scientifico razionale alla conoscenza dell’ambiente in cui viviamo. La separazione dei fattori per la conoscenza del reale e la sua riproducibilità in esperimenti scientifici, ha illuso l’umanità di poter ridurre ad equazioni ogni cosa.

Il capitalismo irresponsabile, dove da un crack all’altro, la costante è la socializzazione delle perdite provocate da manager incompetenti e disonesti. Nei tempi di vacche grasse, il top management incassa stock option e bonus stratosferici. Quando le aziende sono rovinate, il conto passa alla collettività. Si stravolge così tutto il sistema di incentivi e deterrenti a fondamento dell’ economia di mercato. La selezione operata dal sistema della concorrenza viene falsata annullando il principio di responsabilità.

La storia delle crisi finanziarie è ormai di lunghissima durata a partire da quella che venne denominata il crack dei bulbi dei tulipani ( La bolla dei tulipani, La crisi del ’29, Gli anni ’90 ed inizio 2000, La bolla delle c.d. Dotcom, Crisi finanziaria del 2007-2009, Crisi debito sovrano 2010-2011, La crisi da Covid-19), ed alla loro base vi è la deformazione dell’utilizzo del rapporto tra denaro e l’uso spregiudicato della distribuzione dei dividendi a favore di una sempre più elevata concentrazione nei piccoli gruppi di proprietà delle società.

Ma alla base esiste anche il fenomeno della iperproduzione che vede il continuo utilizzo delle risorse del pianeta: il misurato più noto ed anche affinato per la sua capacità di interpretazione è quella che va sotto il nome di Global Foot print che ogni anno dal stabilisce la giornata dell’overshoot, ovvero del superamento del rapporto tra consumo delle risorse e disponibilità di queste sul pianeta, o per singoli territori definiti (come è immediatamente consultabile nella mappa interattiva del sito ). Molte altre dinamiche affliggono la nostra condizione contemporanea. La questione migrazioni, sociopolitiche e climatiche. L’attuale stima globale è che ci siano circa 281 milioni di migranti internazionali nel mondo relativi al 2020, ovvero il 3,6% della popolazione mondiale. Bisogna aggiungere che la stima è in continuo aumento, se consideriamo che nel 1970 il dato riportato era tre volte inferiore.

Considerando i numeri relativi alle rimesse internazionali, ovvero i trasferimenti finanziari o di altro tipo effettuati direttamente da migranti alle famiglie o alle comunità nei loro paesi di origine, si registra un forte aumento negli ultimi venti anni, passando da 126 miliardi di dollari nel 2000 a 702 miliardi di dollari nel 2020.  Crisi sanitaria. Attualmente ci sono circa 7 miliardi di persone al mondo, ma più o meno la metà di loro (3,5 miliardi) non hanno accesso ai servizi sanitari di base. Lo afferma l’ultimo rapporto sulla copertura sanitaria presentato dalla l’Organizzazione mondiale della sanità insieme alla Banca Mondiale, istituzione che fa parte della Nazioni Unite e si occupa principalmente di inviare aiuti di tipo finanziario ai Paesi che versano in condizioni di povertà. Ma le problematiche hanno assunto oggi aspetti nuovi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara infatti che nel 2020 la depressione sarà la più diffusa al mondo tra le malattie mentali e in generale la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari. I dati sono molto significativi: più della metà della patologie mentali viene avvertita all’età di 14 anni e la metà delle nazioni mondiali hanno un solo psichiatra infantile per ogni 2 milioni circa di abitanti; i suicidi sono circa 800.000 all’anno (la maggior parte avvengono nei paesi più poveri e l’età è compresa tra i 14 e i 45 anni); il tasso più alto di malattie mentali è concentrato nei paesi asiatici. Diseguaglianza paesi emergenti e avanzati. Come evidenziato dal World Inequality Report 2022, il 10% di popolazione più ricca del pianeta possiede il 76% della ricchezza e il 52% del reddito, mentre il 50% più povero possiede il 2% della ricchezza e l’8% del reddito.

La risposta green a questa preoccupante tendenza al degrado dei diversi fronti che caratterizzano la società umana sul pianeta, è stata ricondotta a quella grande categoria della sostenibilità che più sopra abbiamo identificato come una delle risposte tradizionali alla questione ambientale. I dati in proposito sono per certi versi incoraggianti, anche se i grandi sforzi condotti in un paese rischiano di essere vanificati dalle tendenze globali.

Ma se da un lato questo tipo di approccio non può che rappresentare una corretta scelta da perseguire, proprio da un’indagine sul tema sul rapporto qualità e sostenibilità condotta da Symbola e Ipsos, emerge come i driver che sono alla base dell’affermazione della sostenibilità e che spingono ad una sua maggiore attenzione sono, in ordine crescente di importanza, l’etica (dà un contributo pari al 6,5%), la paura, in particolare per i cambiamenti climatici e per il futuro del pianeta, (contribuisce per il 37%) e la qualità (con un contributo pari al 56,5%).

Partendo anche quindi da questi indizi esplorare i rapporti tra le due E (economia ed ecologia) con le altre due E (l’estetica e l’etica), assume un significato metodologico importante. Vediamo di seguito con quali possibili sviluppi.

Un itinerario al quadrato: i fattori incrementali Estetica e Etica, elementi per una nuova base educativa.

I segnali descritti sin qui ci dicono che non è più sufficiente scegliere e teorizzare solo più tutele o economie più virtuose, come sino ad oggi si e sostanzialmente scelto: è necessaria una nuova ermeneutica che in una interpretazione multipla coinvolga una miscela di atteggiamenti e razionalità, ovvero unire al binomio Economia-Ecologia (due parti che prendono in esame gli aspetti esteriori della nostra relazione con l’ambiente in cui viviamo), la coppia Etica-Estetica e con essa ogni nuovo fattore sviluppato dall’elevare alla quarta una singola categoria. La nostra purtroppo non è solo una crisi ecologica è in fondo e soprattutto una crisi estetica che mette in gioco il nostro modo di relazionarci con quanto ci circonda.

Una impostazione questa che è magistralmente descritta da Emanuele Coccia nella introduzione al volume di Edoardo Kohn “Pensare come la foresta”: “ Nelle sue forme piú recenti e radicali, alimentate da figure imprescindibili come quelle di Aldo Leopold o John Baird Callicott, o incarnatesi in correnti come la deep ecology iniziata da Arne Næss, l’ecologia sembra privilegiare il discorso morale (e moralista) rispetto a quello ontologico. La questione è sempre e soprattutto quella dell’attitudine dell’umano in relazione al pianeta e al resto dei suoi abitanti e non quella del modo d’essere e dello statuto di questi ultimi: si tratta di redigere una carta dei nostri doveri piú che di esplorare le potenze e le esperienze di chi non condivide la nostra identità. Anche quando un simile approccio si spinge verso sviluppi giuridici e politici radicali, come è il caso della teoria del diritto soggettivo riconosciuto agli alberi in Christopher Stone o quella dei diritti degli animali di Kymlicka e Donaldson, l’inchiesta sulla reale soggettività di piante, animali, pietre o suoli e sulla loro capacità oggettiva di agency resta estremamente superficiale. In questo l’ecologia paga il prezzo di una storia troppo legata all’economia, a una concezione patrimoniale e patriarcale della realtà naturale che è inscritta nello stesso gesto che ne ha permesso la genesi e nel nome che essa porta e che gli sforzi dell’eco-femminismo non sono riusciti a cancellare: il termine ecologia è una variazione minima rispetto al battesimo originario di scienza dell’economia della natura che risale a un trattato settecentesco di Isaak Biberg, allievo di Linneo.”

Non si deve confondere il nuovo rinvio ai temi etici tout court, ovvero ad una riproposizione in sala più verde del già ampiamente trattato percorso dell’educazione ambientale, e qui si vuole seguire l’itinerario di ricerca di stampo più antropologico che ha lo scopo di individuare una nuova postura della persona del cittadino, dell’abitante, all’interno del problema ecologico e del suo agire nel mondo contemporaneo superando il tradizionale atteggiamento “per la natura” o di semplice adesione ispirata da un approccio razionale al principio di sostenibilità. Si avverte la necessità di esplorare nuove accezioni antropologiche della comunità contemporanea dove ad una presa di posizione “a favore di”, frutto di una scelta di sapore razionale, si sostituisca una scelta “di stare con”.

Un breve incipit a quanto segue nei successivi passi riguarda ricordare che questa domanda sui rapporti tra crisi ecologica ed estetica é stata posta durante un dibattito tenutosi nel corso della mostra From tail to wings, curata da Monica Mantelli a Torino nel 2022 presso la Galleria Spazio Bianco, e che aveva visto la partecipazione di chi scrive con due Artisti contemporanei Andrea Caretto e Raffaella Spagna. Un’occasione nella quale le categorie dell’arte sono entrate in reazione chimica con quelle del pensiero ambientale, per scoprire come il medium artistico non sia uno spazio a sé, ma lo spazio unico di rappresentazione del dramma del rapporto uomo natura. Ciò perché nell’espressione artistica si cela quella dimensione speciale che proprio è materia della scienza estetica dalla quale Caretto e Spagna hanno segnalato la problematica, che emerge in particolare proprio negli autori e nei filoni di ricerca ai quali facciamo qui riferimento e che sono citati più avanti.  Vi sono quindi altre dimensioni, che però appartengono all’ambito antropologico e non a quello sociale così come inteso nel nostro vivere occidentalizzato.  Per comprendere il loro contenuto e significato possiamo affidarci ancora a quella definizione citata all’inizio di questo articolo come vediamo di seguito.

La dimensione estetica del rapporto con l’ambiente.

E’ necessario riprendere quindi la definizione di Longo citata all’inizio: “L’estetica è la percezione soggettiva (ma condivisa) del nostro legame con l’ambiente, legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica.”

Possiamo partire di qui appuntando in rosso le due categorie della “percezione” e “legame” e quindi ponendosi una semplice domanda: cosa percepiamo noi del mondo che ci circonda? E’ un mondo rappresentato soprattutto da elementi artificiali o da parti naturali? Pensiamo che la percezione sia a senso unico, o che analogamente a quanto noi facciamo lo stesso sia svolto dagli esseri viventi nei nostri riguardi?

Ora, in merito al nostro percepire ed alla qualità di quanto percepiamo, è necessario riprendere qui la definizione originaria di cosa si intenda per estetica, riandando al suo fondatore, meglio definito dai più come padre putativo di questa specifica branca della speculazione filosofica: Alexander Gottlieb Baumgarten nel 1735 pubblica la sua opera considerata come la base di definizione della nascita dell’Estetica, nella quale tuttavia riprende in realtà l’elaborazione precedente di un grande pensatore come Leibniz. Come noto ai conoscitori di questa materia, Leibniz, in posizione critica rispetto alla dominante visione cartesiana della possibilità di poter dare un senso a tutto tramite l’applicazione dell’approccio razionalista, identifica due categorie di rappresentazione del reale: quelle chiare e quelle oscure. Le prime sono tali, in quanto ci permettono di riconoscere l’oggetto rappresentato essendo ricondotte ad elementi singoli, definiti e distinti tra di loro. Quelle oscure sfuggono invece alla nostra comprensione e rappresentazione in quanto composte da elementi tra di loro non distinti e quindi da noi incomprensibili. Sono quelle componenti che Leibniz rinvia alla sfera dell’incoscienza e degli istinti.

La Mud Maid  nei Lost Gardens of Heligan (“Giardini perduti di Heligan”) nella Tenuta di Heligan situata nel villaggio inglese di Pentewan.

Ma tra le rappresentazioni chiare sono da distinguersi inoltre quelle chiare e distinte e quelle chiare e confuse, una definizione che appare a primo acchito quasi distonica. Le prime sono tali in quanto ognuno degli elementi che le compongono possiedono una definizione nominale, dando quindi la possibilità di procurare una loro conoscenza intellettiva e razionale. L’oro ad esempio è una sostanza riconoscibile in quanto definibile per peso specifico, composizione, colore, lucentezza etc… Le seconde, rappresentazioni, ovvero chiare e confuse (ovvero cum fuse, fuse insieme), sono invece composte da elementi per i quali non è possibile fornire una definizione nominale, essendo, appunto, fusi insieme. Sono quindi quelle che possiamo esperire solo tramite la percezione dei sensi.

Baumgarten ritiene che se alle prime è stato riconosciuto lo status di rappresentazioni indagabili attraverso la scienza razionale, alle seconde sia corretto assegnare una diversa e nuova branca di indagine, per l’appunto quella dell’estetica. E’ in questa estesa categoria che rientra proprio l’arte, e di qui la diffusa definizione dell’estetica come la scienza del bello. E’ con l’esempio che Baumgarten fa del quadro e dell’artista che ciò bene si comprende: l’unica persona alla quale possiamo chiedere se un quadro è bello o brutto è un pittore, in quanto lui è in possesso delle tecniche di riferimento per asserire la qualifica del quel quadro. Ma se a lui chiediamo il perché, lui potrà solo dire che la differenza sta nel fatto che il quadro più bello ha “qualche cosa in più”, un quid che l’altro non possiede.

Nel 1750 Baumgarten pubblica il primo volume dell’AESTHETICA, definendola – tra l’altro – come una «scienza della conoscenza sensibile (gnoseologia inferior)» e una «teoria delle arti liberali. «Aesthetica» è la traduzione del greco «aisthetiké» e sottintende «episteme» vale a dire: «scientia».

Ora, il nostro approccio classico ci ha visti sempre impegnati nell’applicare le categorie chiare e distinte alla comprensione della natura e dell’ambiente che ci circonda, applicando una sorta di “estetica matematica” alla comprensione della natura intorno a noi. Questa estetica funziona ed ha funzionato, in particolare con gli elementi naturali interpretati come “artefatti antropici”, in quanto questi sono composti da parti semplici e riconoscibili, e la sua storica e quotidiana applicazione ci ha permesso di mantenere uno stato di “adeguatezza” nella nostra sfera del quotidiano.

Ma qui ecco subentrare l’elemento di rottura: infatti sino a quando la nostra vita era contenuta in una sfera di controllo, dove le stagioni, la sicurezza sociale, le manifestazioni naturali, quelle climatiche comprese, erano complessivamente mantenute sullo sfondo, e dove dominava il controllo del nostro contesto, tutto funzionava abbastanza bene, e con essa anche la nostra estetica matematica della visione del mondo che ci circonda.

L’ingresso delle dinamiche di crisi in tutte le manifestazioni della natura, che oggi sfuggono alla nostra comprensione immediata, rappresenta quasi una forma di risveglio che deve portarci a comprendere come la realtà non sia affatto costituita solo da rappresentazioni chiare e distinte, ma anche da una famiglia di gran lunga forse più numerosa di rappresentazioni chiare e confuse. L’estetica matematica non è infatti adatta a relazionarci con il mondo naturale, con la sfera del non controllato, dovendo cedere il passo a rappresentazioni chiare e confuse per fenomeni che sono composti da tali e molteplici fattori di complessità che a noi non è dato distinguere completamente al loro interno. Il grado di complessità della natura è tale ed articolato, che nella condizione del nostro vivere non può che rappresentare un mondo al quale guardare con ammirazione e rispetto.

Il tema del rapporto con il mondo naturale costituisce una chiave fondante nella ricostruzione di un immaginario estetico di equilibrio, che la società degli oggetti artificiali occidentale ha completamente sostituito con una estetica dell’artificiale. Sugli effetti sull’apprendimento e gli stati di riduzione dell’ansia, la permanenza in ambienti naturale i ha raccolto negli ultimi anno una bibliografia sterminata. Ma è la componente di ricostruzione di ha nostra estetica che questo elemento rappresenta un fattore decisivo, per riposizionare la nostra postura verso il mondo in cui viviamo.

Si fa così strada l’idea che, come l’arte, anche la natura sia in realtà composta da una tale moltitudine di elementi fusi tra di loro, tali da poterli interpretare solo con un’estetica ecologica: la nostra partecipazione alla vita della natura diventa così una forma di convivenza con il mondo vivente, decretando il crollo definitivo dell’imperitura volontà dell’uomo di costituire forma di dominio di una realtà in realtà indomabile.

Sono percorso di approfondimento che hanno in un autore italiano, Nicola Perullo, una importante occasione di importazione del pensiero di Ingold e di altri studiosi e che si può approfondire nei recenti lavori pubblicati.

 

Percorrere questa strada di dialogo e interfaccia tra ecologia ed estetica è un filone di studio che oggi vede ad esempio impegnati antropologi come Tim Ingold. Nelle parole dell’antropologo inglese si scorge quindi quella diversa modalità di interfacciarsi con la natura che ci ricorda, senza il filtro razionale, ma con una modalità che presente molte affinità con l’arte, e che nel senso della infinitezza della azione del ricercare ha una sua rappresentazione:

«Cos’è la ricerca – si chiede Ingold – letteralmente, è un secondo cercare, l’atto di cercare di nuovo. Stai cercando qualcosa, o stai cercando di scoprire qualcosa. Le tue indagini iniziali hanno prodotto risultati che, nel migliore dei casi, erano insufficienti. Quindi ci riprovi, e forse con un approccio diverso. Ancora, e ancora ce la farai». …. Probabilmente non troverai mai quello che cerchi, perché ciò che cerchi si allontana tanto velocemente quanto più ti avvicini». E qui Ingold spiega che probabilmente è il metodo scelto che non facilita la scoperta. E aggiunge: «Ma tu continui imperterrito, spinto da un desiderio insaziabile. È un desiderio che sembra tanto forte e imperativo quanto la volontà di vivere. Lo chiami curiosità, ma non è così». E qui arriva la rivelazione: «La ricerca non è un’operazione tecnica, una cosa particolare che fai nella vita. È piuttosto un modo di vivere curiosamente, cioè con cura e attenzione, e sintonia con la natura e il mondo. E come tale, pervade tutto ciò che fai».

Emanuele Coccia nella introduzione al volume sopra richiamato di Eduardo Kohn, bene descrive questo movimento contemporaneo che rivede la posizione estetica dell’uomo rispetto al naturale: “Alle tendenze egotiste della tradizione cartesiana, che ha fatto della coscienza un monolocale psichico in cui poter celebrare sottovoce il proprio solipsismo, l’antropologia ha sostituito un carnevale planetario in cui l’io penso è diffratto, diffuso tra tutti i popoli e tutte le culture, oltre qualsiasi rivendicazione di privilegio della modernità di esprimere una ragione universale. (ndr cit. “Non è un caso se l’antropologia è stata il sapere che ha assieme accompagnato in contrappunto “l’invenzione del globo”– il lungo processo di conflitti, conquiste, resistenze che non solo hanno ridisegnato la geografia della Terra, ma ne hanno sancito un’unificazione politica, economica e tecnologica”) . Pur restando fedele al programma di instaurare una ventriloquia culturale su scala planetaria, negli ultimi decenni l’antropologia si è data un ulteriore scopo: quello di far entrare in questo teatro forme di vita diverse da quella umana. Piuttosto che porsi alle frontiere che separano i popoli e le culture per mostrare la loro porosità, si è posta alla frontiera – molto piú ampia, frastagliata, discontinua – che separa ciò che è umano da ciò che non lo è, poco importa se si tratti di oggetti inanimati o di forme di vita che la tassonomia considera genealogicamente lontane da quella dell’ Homo sapiens . Che si tratti dell’antropologia simmetrica o della teoria dell’attore-rete di Bruno Latour, del prospettivismo multinaturalista di Eduardo Viveiros de Castro, della riabilitazione dell’animismo di Alfred Gell o di Philippe Descola, o dell’antropologia dell’incontro multispecifico di Donna Haraway o Anna Lowenhaupt Tsing, le cose, gli animali, le piante, i funghi – in una parola, il mondo – da cui le società del Novecento sembravano volersi distinguere a ogni costo e che si ostinavano a considerare come pura manifestazione della res extensa, appaiono grazie all’antropologia come soggetti, presenze, forme alternative dell’io. (…) Quella di vivere soggettivamente è una proprietà ontologica delle cose così come lo è di qualsiasi vivente non umano. L’io appartiene a molti piú soggetti di quanti le società occidentali abbiano contato tra i loro membri. Questa paradossale configurazione ha permesso (…) una riconfigurazione dell’idea di popolo: la politica non è piú un affare umano; riguarda anche oggetti, artefatti che vivono in società allo stesso modo in cui vivono gli esseri umani, ma anche l’insieme disparato di tutti i viventi.(…) Il contesto storico ed ecologico di questa trasformazione epistemologica è ancora una volta tutt’altro che indifferente: in un’epoca, l’Antropocene, in cui la scienza ha constatato l’impossibilità di distinguere materialmente e geologicamente il pianeta e la sua vita da quella dell’umanità, l’antropologia sembra sforzarsi di mostrare quanta vita tassonomicamente non umana definisca, influenzi, nutra la cultura umana e di liberare tutto lo spettro di sentimenti e pensieri non umani che si esprimono in ogni io, in ogni atto di autocoscienza di qualsiasi essere umano.”

L’estetica ecologica, la nostra dimensione di interpretazione e percezione del mondo, corrisponde quindi alla apertura di una dimensione nella quale l’umano è parte di un continuum in compagnia di tutti gli elementi naturali, animati ed inanimati: “Non siamo solo dipendenti dagli altri esseri viventi da un punto di vista energetico, fisiologico ed evolutivo: il nostro pensiero dipende dal pensiero di tarassachi, faggi, formiche, cani, pesci, balene o porcini con la stessa intensità con cui il nostro metabolismo dipende dalla vita delle vite di cui ci nutriamo. Pensiamo solo perché il mondo è composto del loro pensiero in atto. Per questo “far spazio a un altro genere di pensiero – un pensare piú vasto che abbracci e sostenga l’umano: il pensiero delle foreste” non è un esercizio opzionale: è la sola maniera per fondare una nuova “critica” di una ragione che non può piú essere pura, perché sarà sempre assieme interspecifica e umana.”

Una prospettiva questa che è percorsa da questa nuova scuola di antropologia che sta invertendo i termini della questione uomo-natura, riportandone la sua ermeneutica, ovvero la sua interpretazione originaria, alla dimensione di intreccio fisico e di pensiero tra umano e “altro”.

Il Capo William Berens seduto accanto alle pietre viventi dei suoi antenati; immagine scattata nel 1930 da Hallowell, tra Grand Rapids e Pikangikum, Ontario, Canada (American Philosophical Society)

 

La sfera etica del rapporto noi-pianeta-comunità.

Se la percezione soggettiva (ma condivisa) del nostro legame con l’ambiente, legame caratterizzato da una profonda ed equilibrata armonia dinamica, deve passare per una estetica del naturale, abbinata alla percezione artistica e delle sue diverse forme espressive (senza cadere più nel giogo della monocultura estetica matematica – avvezza solo all’artificiale) occorre scegliere azioni estetiche e scelte etiche capaci di mantenere sano ed equilibrato il legame con l’ambiente. Dalla dimensione della qualità estetica allora passiamo a quella della pratica etica.

E nel campo etico emerge tra gli altri la lezione di Glenn Albrecht, che ha lucidamente identificato le problematiche del nostro vivere contemporaneo che ha proposto una categoria  che possa contrastare il declino della visione di futuro oggi molto esteso.

La nostra evoluzione culturale, scientifica e tecnologica ha portato la gran parte dell’umanità lungo un percorso che riduce la vita ad atomi isolati, trasforma la diversità culturale e biologica in omogeneità, distrugge le connessioni simbiotiche tra le specie, trasgredisce i confini del sistema terrestre e introduce elementi tossici che vanno oltre l’esperienza evolutiva di tutti gli organismi.  Il dominio e l’arroganza degli umani ci ha portato sull’orlo di quella che è stata definita la sesta grande estinzione e ora ci costringe a guardare dentro l’abisso della settima grande estinzione … noi stessi. Per evitare un simile destino, è necessario un nuovo meme che ci aiuti a guidare il nostro pensiero e a fornire ispirazione a tutte le generazioni, ma soprattutto ai giovani. Il pensiero simbiotico conduce al Simbiocene, una nuova era che dia alimento a tutti gli aspetti dell’essere umano entro un mondo di altri esseri viventi.”

Sul Simbiocene Albrecht riporta:

“Io sostengo che la prossima era della storia umana dovrebbe essere il Simbiocene (dal greco sumbiosis, o compagnia). Ho creato questo concetto nel 2011 come reazione quasi istintiva contro l’idea stessa di Antropocene (Albrecht 2011). Il significato scientifico della parola “simbiosi” implica vivere insieme per il reciproco vantaggio e desidero utilizzare questo concetto profondamente importante come base per quello che spero sarà il prossimo periodo della storia della Terra. Essendo un aspetto fondamentale del pensiero ecologico ed evoluzionistico, la simbiosi e la simbiogenesi ad essa associata affermano l’interconnessione della vita e di tutti gli esseri viventi (Scofield e Margulis 2012). Come molti pensatori hanno sottolineato, tale interconnessione e interazione riporta gli esseri umani nella comunità della vita e resiste alle visioni hobbesiane e spenceriane della natura come essenzialmente ostile e una guerra competitiva di tutti contro tutti. Senza dubbio esiste un conflitto tra gli organismi, ma un equilibrio complessivo di interessi (eco-omeostasi) è nell’interesse totale di tutta la vita. Inoltre, l’ecologia stessa è un concetto radicale in quanto richiede a tutti noi di vivere entro i limiti della natura e di convivere con tutte le altre forme di vita che condividono questa casa che chiamiamo Terra. In questo momento storico contemporaneo in cui riconosciamo la minaccia del riscaldamento globale, uno dei primi pensatori ad avvertirci dei suoi pericoli (nel 1962), Murray Bookchin,

L’aspetto critico dell’ecologia, una caratteristica unica della scienza in un periodo di generale docilità scientifica, deriva dal suo oggetto, dal suo stesso dominio. Le questioni di cui si occupa l’ecologia sono imperiture, nel senso che non possono essere ignorate senza mettere in discussione la sopravvivenza dell’uomo e la sopravvivenza del pianeta stesso. Il limite critico dell’ecologia è dovuto non tanto al potere della ragione umana – un potere che la scienza ha consacrato durante i suoi periodi più rivoluzionari – ma a un potere ancora più elevato, la sovranità della natura… l’ecologia mostra chiaramente la totalità del mondo naturale – la natura vista in tutti i suoi aspetti, cicli e interrelazioni – annulla le pretese umane di dominio sul pianeta (Bookchin 1971)”

Le implicazioni che queste modalità di interpretazione delle problematiche del nostro vivere quotidiano, possono portare allo sviluppo di diversi aspetti e di relazioni multiple tra le 4 categorie che abbiamo prima sintetizzato nello schema delle 4E che può essere ripreso alla luce di diverse integrazioni nello schema seguente:

Modello di relazioni tra le 4E e filoni di traduzione etica ed estetica nel quadro di una nuova visione antropologica.

 

Etica è prima di tutto scelte pratiche e coerenti, dove l’unione pensiero e fare è guidata da un continuum, e per poter immaginare il nostro percorso etico possiamo pensare a seguire questi spunti:

Una vita a diretto contatto con la dinamica della natura: perseguire nel quotidiano quanto E.O.Wilson ha teorizzato nel suo concetto di Biofilia, definito prima di lui da Erich Fromm, si permette di scardinare la dipendenza costante dall’artificiale, una dimensione che altera la nostra estetica e ne determina una deriva in tutto quanto noi facciamo e agiamo. Principi e are che sono alla base di una vasta attività di ricerca e studio che autori come Giuseppe Barbiero svolgono da anni in Italia.

L’abitare extraurbano e comunitario: le relazioni con la natura possono essere inserite nel quotidiano se la natura è vicina a noi. Una condizione fondamentale è quindi abitare visino ad essa, anche per favorire quel fenomeno di decrescita dei grandi centri urbani che oggi sono diventati macchine di qualità di vita scarsa, di aumento dei conflitti e della violenza. Un percorso che permette anche di tornare ad utilizzare una grande parte dell’Italia, quella famosa parte chiamata dell’osso che una ricerca sociologa ed urbanistica italiana di vecchia data ha oggi ripreso con spinta all’interno di iniziativa come quella di Riabitare l’Italia. In questa dimensione l’aspetto delle conseguenti relazioni sociali e con le altre persone assume un valore moltiplicato per enne rispetto alle dinamiche compresse delle metropoli, costruendo una estetica umana più libera, aperta e inclusiva.

L’osservanza del cibo sano: una delle rivoluzioni ecologiche fondamentali nel nostro curare noi stessi e quindi il pianeta in cui viviamo, passa per un rapporto sano e consapevole con il cibo, una dimensione industriale che occupa buona parte della nostra tavola, e che così facendo non interesse più buona parte del nostro tempo, dedicato a fare cose “più importanti”. E così si espandono le offerte dei cibi precotti, preconfezionati, prepreparati da chi? Da un sistema industriale nel quale la qualità non riesce a stare al passo con la convenienza, non certo per il consumatore, ma per il produttore. La crescita del consumo diretto in azienda, la cura della preparazione dei cibi in casa, il consumo di biologico e biodinamico devono essere condizioni che modificando il nostro assetto di salute permette di alterare le modalità contemporanee del cibo industrializzato.

La cura della solitudine (meditazione): Vito Mancuso ci aiuta a comprendere il valore di una pratica fondamentale, che diviene uno scudo all’imperante sistema di occupazione della nostra mente svolto dalla comunicazione in particolare digitale, e che nessuna IA può immaginare di poter avere. Ci dice il filosofo e teologo italiano: “

CUSTODIRE IL VUOTO Il senso della vita dipende dalla coltivazione del proprio sé. In particolare dalla coltivazione dello spazio vuoto interiore. Al riguardo vorrei aggiungere che il primo dovere consiste nel mantenerlo tale, evitando di riempirlo di chiacchiere, suoni, voci, come molti purtroppo tendono a fare perché ne hanno paura. E siccome tra quei molti ci siamo anche noi, il nostro primo dovere si ridefinisce e appare consistere nel ripulirci, nel praticare una profonda pulizia di noi stessi. Dobbiamo imparare a non riempire di cose inutili il nostro vuoto, governando la mente senza temere la noia che talora arriva. Pensate per esempio all’espressione di uso comune «ammazzare il tempo»: noi siamo tempo, siamo essere e tempo, e se ammazziamo il nostro tempo, ammazziamo il nostro essere avvelenandolo con la volgarità, l’idiozia, la sporcizia. Dobbiamo fare esattamente il contrario: custodire lo spazio vuoto dentro di noi nutrendolo di cose vere, di poche cose vere: poche vere amicizie, poca vera musica, poche vere letture (e meglio ancora, riletture). È la dimensione contemplativa della vita. Se custodiamo il nostro vuoto interiore, esso diverrà il nostro rifugio, la nostra isola, il cuore dentro il cuore, come scrive l’antico testo taoista: «Dentro il cuore un altro cuore racchiudi, dentro il cuore un altro cuore è presente. Questo cuore dentro il cuore è pensiero che precede le parole».

La coltivazione della cura dell’arte: la dimensione artistica, il nutrimento derivante dal fruire delle espressioni delle multiforme espressioni artistiche, assume un valore mobilitatorio della nostra mente, come anche del nostro fare quanto l’arte diviene performance e partecipazione. E’ una via ad alto contenuto ispiratore e di riproposizione alla nostra mente di quanto il mondo naturale quotidianamente produce, ed insieme una cura e aiuto alla nostra essenza per restare in connessione con la nostra dimensione individuale e con la capacità di pensare e fare nello stesso tempo, superando le fratture della produzione economica, sostituendola con la produzione artistica.

Manutenere la vita e con essa le cose: il culto del nuovo, del tecnologicamente avanzata ci ha portati sempre a sostituire e mai a tenere quanto ci serve per esser riusato. Tenere però comporta manutenere e questo porta via tempo, a qualcosa che la società moderna si ha imposto di perseguire. Questa forma di rapporto con il mondo circostante altera anche i rapporti con gli altri, e diviene base di una vita di consumo e di produzione di scarti. Una dimensione quella del manutenere che interessa anche molto l’ambiente nelle sue diverse forme, non occorre chiudere i fiumi in un canale di cemento, ma lasciarli liberi, lavorando con essi ad una manutenzione del loro stato naturale, ormai in parte artefatto dalla presenza dell’uomo nei secoli. Manutenere è investire per impedire il deterioramento delle qualità, del territori, delle cose del cibo, della nostra esistenza.

 

Abbiamo toccato quindi anche con qualche considerazione di traslazione sul vivere quotidiano, come proporre un cambio di passo che tuttavia, si badi bene, non rappresenta solo una scelta di testa (sarebbe come continuare a ripetere lo stesso errore razionalizzante). I nuovi atteggiamenti estetici prima ricordati, e che sono nuovi solo per noi mentre ricadono nelle tradizioni millenarie consolidate delle culture cosiddette native, determinano scelte etiche che comportano una metamorfosi delle nostre cognizioni pratiche. E’ l’antropologia del nuovo “making” di Ingold che segue questa direzione per portarci ad adottare una postura mentale diversa, nella quale superare la visione tanto consumata del network, per approdare a quella del meshwork. Una prospettiva diversa, della quale potremmo approfondire le conseguenze in una prossima analisi ripercorrendo la via dei problemi legati alla visione della creazione intransitiva di Ingold.

                                                                                                      Dal network(in basso) al meshwork(in alto) di Tim Ingold

 

Come brillantemente ci racconta Simione Ghiaroni su DoppioZero presentando il testo di Ingold Making, e facendo cenno alle “4A” di Ingold (in un contrappasso curioso con le nostre 4E): “Abbiamo ancora negli occhi le immagini tremende del rogo di Parigi, Nôtre-Dame avvolta dalle fiamme. Il fuoco consuma la foresta di travi che sosteneva il tetto, la guglia ottocentesca crolla, la forma della cattedrale viene stravolta davanti ai nostri occhi. Questo ci costringe a considerare l’edificio monumentale non più come un oggetto immutabile e compiuto, ma come una cosa, fatta di materiali la cui storia non si è mai in realtà arrestata in una forma definita. (…)  “Le forme delle cose” ci ricorda Tim Ingold nel capitolo dedicato all’analisi della materialità degli oggetti del suo testo Making, sono “generate nei campi di forze e nelle circolazioni dei materiali, i quali trascendono ogni confine che potremmo tracciare tra artefici, materiali e ambiente circostante”. Così, il rogo sciagurato ha portato il nostro “flusso della coscienza”, come lo definisce Ingold, ovvero la nostra comprensione della forma della cattedrale come oggetto finito, a corrispondere forzatamente con il “flusso del materiale”, cioè la dinamica ecologica che ha una traiettoria sottoposta al campo di forze che lo attraversano. Con il fuoco, ci siamo accorti che anche una grande opera architettonica, uno dei modelli prototipici del genere “cattedrali”, è costituita da materiali e, come noi esseri umani, è soggetto e oggetto di un continuo movimento dal quale emerge senza posa una forma.  Se la cattedrale di Nôtre-Dame stava di fronte a noi come oggetto, durante il rogo essa è con noi, conducendoci a un pensiero costruito con il materiale di cui è fatta la cattedrale e non attraverso la sua materialità di oggetto dato. Proprio all’attività del pensiero attraverso la produzione e la dimensione materiale delle cose è dedicato il libro Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura di Tim Ingold (…).  Ingold è professore di antropologia sociale all’Università di Aberdeen e da tempo conduce un’idiosincratica e affascinante riflessione attorno all’edificazione di una “scienza senza nome” – come, in altri tempi e modi, Agamben definì l’impresa intellettuale di Aby Warburg. Ingold propone un pensiero “anti disciplinare” che attraversi le “quattro A” – antropologia, arte, architettura, archeologia – impegnandosi in una riflessione non tanto su queste discipline, ma con queste discipline, felicemente accomunate dall’allitterazione della lettera ‘a’. Il testo nasce da un corso che l’autore ha tenuto a partire dal 2003-2004 presso l’università di Aberdeen e attinge alle esperienze pratiche condotte durante le lezioni come scheggiare una pietra, “incorniciare” un paesaggio, costruire un tumulo, entrare in contatto con un materiale, per costruire – è il caso di usare questo termine – un pensiero attraverso il produrre, attività che accomuna per l’antropologo le “4A”.

Il saggio di Ingold rappresenta un manifesto della sua “filosofia personale”, che comporta un diverso approccio etico. La tesi fondamentale viene enunciata in modo chiaro: “produrre significa stabilire una corrispondenza tra l’artefice e il materiale”. Ovvero, la necessità di uscire dalla concezione ilemorfica, l’idea che produrre significhi imporre una forma sul mondo materiale, per ripensare il “fare cose” (making) come un “processo di crescita”, un processo morfogenetico nato dalla corrispondenza tra artefice e materiale.

Ma su questa linea si muovo anche altre riflessioni e revisioni delle nostre categorie come ci indice il lavoro di Timothy Morton  . ” Col termine «iperoggetti» Timothy Morton designa entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un «oggetto» sia. L’esempio più drammatico è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che «non c’è un fuori» e che la nostra esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti. «Viscosi» e «non-locali», gli iperoggetti si appicciano alle nostre vite trascinandoci in una dimensione al contempo strana e inquietante: comprenderne il funzionamento, è per Morton il primo, necessario passo per ammettere che la fine del mondo è già avvenuta, e che non può più essere il feticismo per la natura del vecchio ambientalismo «folk» a fornire gli strumenti adeguati a quella coesistenza tra umano e non-umano imposta dall’Antropocene.”

La ricerca continua, e per una del tutto provvisoria conclusione di percorso qui proposto, credo significativo concludere con le parole di Vito Mancuso, che sembrano racchiudere in se molta parte del percorso sin qui svolto:

“LA NUOVA UTOPIA. La nuova utopia si pratica nel segreto. E la si coltiva ogni giorno tramite la coltivazione della vita interiore fatta di quattro semplici pratiche: studio, natura, igiene, respiro. Per studio intendo quello che intendono tutti, cioè non semplice lettura come evasione e passatempo, ma lettura con la matita in mano e successiva memorizzazione. Per natura intendo la contemplazione e l’immersione nel mondo naturale, praticata a lungo e in modo austero. Per igiene spirituale intendo la liberazione dai veleni della stupidità, della volgarità e della aggressività, guardando a se stessi come a un armadio o a un cassetto da liberare, buttare, ripulire, riordinare. Per respiro intendo la pratica del respiro consapevole. Il nostro più grande problema a livello mondiale è la questione ecologica, ma è solo partendo dalla pulizia della mente che esso potrà concretamente iniziare a risolversi. La mente pulita, pienamente libera e umana, è la nuova utopia che ci sorregge nel cammino.”

Quale ,migliore sintesi, per comprendere che il superamento della crisi ecologica non sta al di fuori di noi, ma dentro di noi, e uno degli enzimi per favorire questa nostra dimensione è l’Arte, archetipo chiaro e confuso della nostra percezione del mondo come lo è la Natura.

 

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KARINA CHECHIK (AR)

30/9/2023 – 22/10/2023

Fotografie, dipinti, installazioni

A cura di Massimo Ghirardini
Presentazione di Ippolito Ostellino

Testo critico di Monica Nucera Mantelli

Open ADA, via Repubblica 6, Torre Pellice (TO), Italia
Visite: sabato/domenica, ore 15 -18 Ingresso libero

 

Scrive per noi

IPPOLITO OSTELLINO
Ippolito Ostellino nasce a Torino il 16 agosto 1959. Nel 1987 si laurea in Scienze Naturali e opera come prime esperienze nel settore della gestione e progettazione di Giardini scientifici Alpini. Nel 1989 partecipa alla fondazione di Federparchi Italia. Autore di guide botaniche e di interpretazione naturalistica e museale, nel 1997 riceve il premio letterario Hambury con la guida ai Giardini Alpini delle Alpi occidentali. Dal 2007 al 2008 è Presidente nazionale AIDAP, Associazione italiana dei direttori dei parchi italiani. Dal 2009 partecipa come fondatore al Gruppo di esperti nazionale sulle aree protette "San Rossore". Nell'area torinese opera in diversi campi: è il promotore del progetto Corona Verde dell'area metropolitana torinese per la Regione Piemonte, e svolge attività di docenza presso il Politecnico di Torino; nel 2008 progetta il format della Biennale del Paesaggio Paesaggio Zero; nel 2009 è autore con i Prof. Pala e Occeli del progetto della ciclovia del canale Cavour ; nel 2011 ha ideato il marchio di valorizzazione territoriale “CollinaPo” sul bacino di interesse dell'area del fiume Po e delle colline torinesi e nel 2016 porta a riconoscimento UNESCO Mab il territorio di riferimento; nel 2016 coordina il tavolo Green infrastructure nel III Piano strategico dell'area metropolitana. Autore di saggi, contributi congressuali e libri sul tema Natura, Paesaggio e Ambiente, nel dicembre del 2012 è stato insignito del premio Cultori dell'Architettura da parte dell'Ordine degli Architetti della Provincia di Torino. Dal 2022 è membro effettivo del Centro di Etica ambientale di Parma e prosegue la sua attività presso l’Ente di gestione regionale del Parco del Po piemontese.