“.eco” (su carta e web) dedicherà tutto il 2018 a una campagna sulla “Città delle bambine e dei bambini”. Una riflessione introduttiva intorno all’identità dell’infanzia contemporanea
«…Oggi ne sono passati più di cento, si perdoni l’imprecisione di chi non ha imparato a contare esattamente, son stati molti, son stati pochi, è come quando si dicono gli anni, ho già passato i trenta, e Baltasar dice, In tutto ho sentito dire che ne sono arrivati cinquecento, Tanti, si meraviglia Blimunda, ma né l’uno né l’altra sanno esattamente quanti siano cinquecento, senza contare che il numero è, fra tutte le cose che esistono al mondo, la meno esatta, si dice cinquecento mattoni, si dice cinquecento uomini, e la differenza che c’è tra mattone e uomo è la differenza che si crede che non ci sia tra cinquecento e cinquecento, chi non l’avrà capito la prima volta, non merita che glielo si spieghi la seconda».
Risposte difficili a una domanda apparentemente banale
D’altra parte, direi ancora a sostegno di Saramago, mi è stato fatto osservare che le prevalenti “definizioni” di bambino portano il termine fino alla pubertà, quindi per i maschi anche a 13-15 anni e che la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia lo estende ai 18: «Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile.» (E “fanciullo” è il termine onnicomprensivo scelto per la traduzione italiana dell’inglese “child”). Dunque non è facile dare una risposta alla domanda apparentemente banale che mi pongo; cioè “Sino a che età si è bambini?” La quale, evidentemente, ha risposte che non hanno riscontri obiettivi e unici nelle differenti realtà alle quali facevo prima riferimento. Nell’immaginario collettivo quella del bambino viene vista come l’età del progressivo apprendimento, del vedere, del sentire, del parlare, dell’intendere, del volere, il tutto con un filo conduttore che è l’età del gioco, della spensieratezza. Questa mi sembra una giusta immagine, ma quanti riscontri e dove ha nella realtà? E se sono quelle da 0 a 6 e poi da 6 a 11 le ripartizioni temporali nelle quali muoversi tra bambino e fanciullo queste età da zero a sei anni e da sei a undici sono rappresentative di una realtà teoricamente individuata o il frutto di riflessioni confortate dalla realtà di stati di fatto? I bambini e i fanciulli delle bidonvilles africane o delle favelas brasiliane o della napoletana Scampia che confrontabilità hanno con i loro omologhi per età di San Francisco o di Copenaghen o di Posillipo?
In realtà bisogna prendere atto che non si è bambini dovunque allo stesso modo e alla stessa età. I sei anni che vengono considerati quelli del passaggio alla fanciullezza e sono anche quelli dell’inizio della scuola dell’obbligo sono certamente un utile spartiacque. Ma non si può ignorare che vi sono luoghi e situazioni in cui si arriva a questa età avendo già superato l’essere bambini e altri in cui si tende a prolungarne la piacevolezza. Prima facevo riferimento ai bambini africani e delle favelas brasiliane come esempio lampante di diversità dell’essere bambini, ma se mi guardo intorno nel luogo in cui vivo, a Napoli, non ho bisogno di spingermi tanto lontano per confermare che “non si è bambini dovunque allo stesso modo e alla stessa età”. A Napoli non tutti i bambini vanno a scuola. Certamente non tutti dalla stessa età negli “asili nido” o negli asili e basta. Ne va un numero maggiore alle elementari, ma nei quartieri “periferici” (periferie non solo topografiche) quando pure riuscissero a frequentare la scuola dell’obbligo dividerebbero parte del tempo con la possibilità di lavorare in qualche bar come porta-caffè o, molto peggio, dando una mano in famiglia per portare “bustine” spacciate ai richiedenti: tanto “non sono punibili”. Questo della impunibilità è in altro grave quanto trascurato problema che costituisce un’altra, l’ennesima, violenza nei confronti dell’infanzia.
La “capacità di intendere e di volere”
A questo riguardo traggo spunto dalla lettura di Laura Basilio, L’imputabilità del minore (in L’altro diritto, “L’imputabilità, minore età e pena. Aspetti giuridici e sociologici”, 2002) e apprendo che «Sulla base della considerazione che il minore non ha ancora raggiunto un grado di sviluppo fisico e psichico tale da poter comprendere il valore etico-sociale delle proprie azioni, da distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, anche il nostro codice annovera la minore età tra le cause di esclusione dell’imputabilità.»
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- UGO LEONE
- Già professore ordinario di politica dell'ambiente presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Napoli "Federico II". I suoi interessi scientifici e i contenuti delle sue pubblicazioni sono incentrati prevalentemente sui problemi dell'ambiente e del Mezzogiorno. E' autore di numerosi volumi e editorialista dell'edizione napoletana del quotidiano "la Repubblica". Per molti anni è stato presidente del Parco nazionale de Vesuvio.
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