Parliamo di inclusione. E di cosa vuol dire per l’educazione
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Il grande rimescolamento di popoli e di tradizioni impone di trovare una “base comune” e questa base comune si trova nell’idea di “umanità” specificata in diversità che possono contrapporsi oppure includersi. Dipende da noi, dai modelli educativi cui sapremo dare vita nei prossimi decenni.
Ma quali possono essere i punti di partenza, al di là degli articolati di leggi e principi che stabiliscono unicamente le finalità da perseguire? Il problema è come fare inclusione, a esempio, nel concreto dei processi di formazione.
Di Tiziana C. Carena
Se cerchiamo in internet troviamo alla parola “inclusione”, “inclusione scolastica, chiave del successo formativo per tutti”.
Niente di più vero, di più autentico: pensiamo alle identità culturali, alla odierna multiformità che si diversifica nelle classi scolastiche in Italia e in Europa, in modo particolare. Identità e differenza per una società multietnica in un progetto inclusivo: un progetto imposto dai tempi, oltre che da un quadro di valori che risale all’Illuminismo, il secolo della ragione, il secolo contro l’oscurantismo medievale; oggi l’emergenza umanitaria, senza cessare di essere un’emergenza, si rivela essere un’opportunità: il grande rimescolamento di popoli e di tradizioni impone di trovare una “base comune” e questa base comune si trova nell’idea di “umanità” specificata in diversità che possono contrapporsi oppure includersi. Dipende da noi, dai modelli educativi cui sapremo dare vita nei prossimi decenni.
Ma quali possono essere i punti di partenza, al di là degli articolati di leggi e principi che stabiliscono unicamente le finalità da perseguire? Il problema è come fare inclusione, a esempio, nel concreto dei processi di formazione.
Esito di una relazione educativa
Una full-inclusion non significa unicamente partire dal riconoscimento delle differenze tra gli studenti. Le differenze culturali socioeconomiche, di genere, e via così, sono dati rilevanti, ma un’inclusione è un’inclusione tout-court. L’inclusione è l’esito di una relazione educativa che si fonda prevalentemente sulla comunicazione. In ambito di comunicazione bisogna portare esempi concreti, usare, in altri termini, il metodo analogico, per farsi comprendere con più chiarezza. Nella scuola si parla di Bisogni Educativi Speciali (BES). In questa macro-categoria è inclusa una grande varietà. Malgrado questo si continua a non parlare della macro-categoria e si operano differenziazioni, parlando, a esempio dei DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) o degli “H”. In alcuni casi si pensa ancora che l’insegnante di sostegno sia ancora “sul caso” e non “sulla classe”. In questo modo non si parte mai dal problema centrale: l’esigenza di una educazione per tutti, per il gruppo-classe.
Includere significa creare una base formativa comune a tutti, modificando il contesto educativo in vista del processo inclusivo. Come ha sostenuto il pedagogista Andrea Canevaro, la diversità deve divenire sempre più una risorsa all’interno della scuola. Dalla legge 104/1992 il concetto di persona è stato posto al centro del processo educativo nel concreto; non c’è inclusione se non c’è solidarietà sociale.
È proprio il campo di osservazione educativo che deve abbracciare con uno sguardo generale l’insieme per creare un’identità plurale, onde favorire l’identità e la differenza, realizzando pienamente il concetto di persona. Ripensiamo ai contributi del personalismo francese e italiano: la persona non è soltanto mente, né soltanto corpo.
L’insegnamento della psicologia umanistica
L’interazione dell’uomo con l’ambiente è l’insegnamento primo della psicologia umanistica. I piani didattici individualizzati sono la grande novità nelle strategie didattiche messe in atto oggi dalla scuola: pensiamo al PFI (il Piano Formativo Individuale) negli Istituti Professionali, una sorta di piccolo portfolio per ciascuno studente. Il documento, previsto dalla riforma degli Istituti Professionali, prevede che, per ogni allievo, il Consiglio di Classe debba predisporre un PFI per favorire l’integrazione fra contesti di apprendimento formale e non formale, per promuovere lo sviluppo di risorse umane, ma soprattutto dovrebbe esserci una coralità che presuppone confronto e condivisione; così, si farebbe squadra fra i docenti. Un progetto che, secondo la riforma, riguarderà il bilancio personale dell’allievo nel percorso formativo quinquennale e che sarà aggiornato, quindi, ogni anno. Una pratica, dunque, per validare l’esperienza formativa. Esperienza formativa che passa per i mezzi della tecnologia informatica.
La LIM (Lavagna Interattiva Multimediale), strumento tecnologico ormai presente in tutte le classi, lavora sul pensiero visivo, è massimamente inclusiva: tutti gli studenti, ormai, sono nativi digitali; con la LIM si va incontro alla loro identità culturale. Possiamo usare la LIM come la vecchia lavagna di ardesia, naturalmente con molte più funzioni: possiamo usare molti colori, possiamo scaricare applicazioni per tracciare mappe mentali e concettuali.
Abbiamo parlato di “pensiero visivo” e tutti sappiamo quanto più potere abbia l’immagine rispetto alla parola; come diceva Neurath, il filosofo neopositivista del Circolo di Vienna, teorico del linguaggio unificato delle scienze e inventore dell’ISOTYPE (International System of Typographic Picture Education), “le parole dividono, le immagini uniscono.” Con la LIM possiamo fare lezione, possiamo informare e formare sui media più autorevoli avvicinando gli studenti all’attualità ecc. L’inclusione è sostanzialmente una varietà di metodi di apprendimento e il brainstorming della filosofia del comportamento nella scuola. L’inclusione passa attraverso l’osservazione e se il contesto sociale deve essere operante, stimolante e rinforzante, non è possibile operare senza osservare: il PFI costituisce un esempio di tale operare; monitorare per vedere il cambiamento. E, com’è noto, non c’è apprendimento se non c’è il cambiamento.
Una modifica del sistema
La referente dell’inclusione presso l’USR Piemonte, professoressa Paola Damiani, psicologa, afferma che nonostante le momentanee incertezze normative in Italia (sospensione dei decreti 66 e 62 relativi alle pratiche inclusive nella scuola) non è possibile, in prospettiva, che si azzeri la scoperta e la conquista della neurodiversità, la quale non può essere ricondotta alla visione dicotomica “disabili/normodotati”, né al mero riconoscimento di categorie protette da leggi specifiche (L. 104 e 170). Perché chi non rientrasse nella dicotomia vedrebbe misconosciuta la propria peculiarità.
Com’è noto, l’inclusione prevede una modifica del sistema in cui la persona sia integrata. Il contesto deve essere adattato alle esigenze dei Bisogni Educativi Speciali, perché non si tratta di rimuovere stati patologici, ma di valorizzare diversi modi di essere. In questo modo potrà essere instaurata una logica della reciprocità. Occorre avviare uno sviluppo di formazione continua per le competenze comunicative che coinvolga tutti.
Quando Umberto Galimberti, filosofo e autore del famoso Dizionario di psicologia, parlava di “educazione sentimentale” nella scuola intendeva che si dovesse educare all’affettività per essere più coinvolti nel tutto dell’educazione sociale permanente.
La dimensione educativa va vista, per così dire, in “3D”: dimensione biologica, individuale e sociale, con corsi di formazione per il gruppo-classe. Le abilità richieste oggi agli insegnanti sono di tre tipi: competenza disciplinare, competenza didattica e competenza psico-pedagogica. La competenza psico-pedagogica, poco diffusa in Italia, riguarda conoscenze di psicologia dell’apprendimento, dello sviluppo, dell’educazione e della comunicazione.
Occorre una re-visione radicale della full-inclusion partendo dalla persona per modificare il contesto. Un contesto che è ancora segnato dall’ “effetto-Pigmalione” (ideato dallo psicologo statunitense Merton): nell’antica mitologia greca Pigmalione, re di Cipro, aveva fatto scolpire una bellissima statua di avorio le cui forme esprimevano il suo ideale di femminilità. Da qui l’effetto in ambito educativo, nella relazione insegnante-allievo, per cui l’insegnante plasma il percorso formativo del discente in base alle proprie vedute; perché questo non accada occorre ripensare l’intera comunità scolastica a partire, come affermato da J. Delors, dalla centralità del discente con i suoi bisogni, le sue emozioni, le sue motivazioni. Ripensare ai luoghi di apprendimento, agli spazi educativi, ripensare al sistema delle valutazioni; pensiamo ai DSA: il voto viene vissuto non come valutazione di una prova, ma come voto dato alla persona.
L’inclusione è un sistema formativo integrato
Il processo educativo non deve consistere nello sviluppo del “programma”, ma nello sviluppo della persona con tutte le sue peculiarità. Il nuovo “esame di maturità” va proprio in questa direzione: in particolare la abolizione della “terza prova” (o “quizzone”) che metteva in difficoltà soprattutto (ma non soltanto) i DSA va salutata come un progresso. Il colloquio stesso pare che sarà più diretto a valorizzare il percorso formativo dello studente con un’attenzione particolare anche alla pluridisciplinarità.
L’inclusione è un sistema formativo integrato, che piaccia o meno. Non si può fare educazione in una disciplina, senza tenere conto del processo educativo che avviene nelle altre discipline, nei social e in famiglia. Occorre creare un clima di partecipazione, condivisione e confronto. Se gli studenti guardano la serie “La casa di carta”, per portare un esempio, noi dobbiamo sapere qualche cosa di questa serie, per potere comunicare con loro. In una parola, dobbiamo adattare i contenuti agli interessi dei soggetti in formazione. Questa è cultura dell’attualità, è la loro attualità, l’attualità del loro tempo. La creatività, nelle life skill, potenziano le abilità, creando uno spirito critico. Le barriere non sono soltanto burocratiche, ma anche vecchi schemi che abbiamo nella mente, noi insegnanti, che debbono essere rimosse, se vogliamo essere dei facilitatori dell’apprendimento nel senso più autentico. Che l’obbligo scolastico sia stato protratto fino ai sedici anni è già un successo soprattutto per la relazione sociale che viene a crearsi con il gruppo-classe, per la stessa vita sociale (scuola come scuola di socializzazione).
La selezione negativa che produce l’abbandono scolastico e la dispersione rappresentano, in fondo, il fallimento dell’inclusione, il non raggiungimento dell’obbligo formativo fino alla maggiore età. Tra gli obiettivi dell’UE per il 2020 c’è proprio la lotta alla dispersione scolastica per il successo formativo e per l’inclusione sociale. Inclusione, dunque, vuol dire agire sui contesti.
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- TIZIANA CARENA
- Tiziana C. Carena, insegnante di Filosofia, Scienze umane, Psicologia generale e Comunicazione, Master di primo livello in Didattica e psicopedagogia degli allievi con disturbi dello spettro autistico, Perfezionamento in Criminalistica medico-legale. È iscritta dal 1993 all'Ordine dei Giornalisti del Piemonte. Si occupa di argomenti a carattere sociologico. Ha pubblicato per Mimesis, Aracne, Giuffrè, Hasta Edizioni, Brenner, Accademia dei Lincei, Claudiana.
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