Comunità in formazione: una scuola itinerante nella Baronia irpina
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La prima Scuola WEEC itinerante di Alta formazione in Irpinia è stata una esperienza unica, breve e intensa, rivolta al mondo dei tecnici e delle professioni, architetti e ingegneri, ma non solo, che nel volgere delle ore ha rapidamente dismesso gli abiti del convegno fatto solo per registrare i crediti formativi “obbligatori” ed è diventata una grande palestra di incontri, di storie, di opinioni, di sguardi. Una occasione di crescita.
Quale futuro per le aree interne e fragili
Al centro della scuola (leggi anche l’articolo della direttrice della scuola Donatella Porfido) due grandi temi: quale futuro per le aree interne e fragili del Paese, dove i giovani scappano o vogliono scappare, e come fare per mantenere vivo il patrimonio unico e prezioso che ci ha tramandato chi ci ha preceduto.
Che, a pensarci bene, sono i due grandi temi al centro di ogni pedagogia da duemila anni o, meglio, le due facce della stessa medaglia: come innovare conservando il sapere della tradizione, come transitare nel futuro i valori del passato dando loro un nuovo quadro di senso.
Un problema antico, antichissimo, a cui forse l’educazione e la pedagogia ha da dare qualche risposta, per lasciare appunto, qualche speranza a comunità e territori che essi stessi si sentono fragili e senza futuro.
- Abitare non significa ricostruire
Un paese ricostruito, in particolare dopo la ferita del terremoto, non vuol dire un paese abitato. Ne consegue che la ricostruzione può essere solo una condizione perché un paese viva, necessaria ma non sufficiente. Al centro, quindi, non possono stare gli edifici ma deve essere qualcos’altro: le relazioni tra le persone, innanzitutto, e i saperi che costruiscono l’identità comune di un gruppo (famiglia, comunità, società). - La mappatura “profonda” racconta le storie di vita
Se per avere un futuro le persone e le relazioni devono essere al centro, allora valorizzare il patrimonio di una comunità significa esattamente partire da come le persone lo hanno costruito e reso possibile nei secoli. E’ uno “studio del qui” che, proprio perchè mette al centro le persone, rimanda sempre ad un altrove e ad un altro tempo. - Le aree non sono marginali ma vengono marginalizzate
La marginalità non è mai una condizione data, intrinseca al territorio, ma è sempre relativa: è sempre qualcuno o qualcosa che marginalizza.
È così anche in educazione: l’emarginato – di solito il disabile, il diverso, il divergente – non ha in sè meno potenzialità, viene marginalizzato perché ha caratteristiche diverse, bisogni diversi, aspirazioni diverse rispetto alla maggioranza del gruppo. - La resilienza è capacità di adattamento alle nuove condizioni ambientali
Di solito, è proprio dall’individuo emarginato che emergono le caratteristiche di resilienza che alla fine garantiscono un adattamento migliore a nuove condizioni ambientali.
E’ per questo che a mio avviso i territori oggi marginalizzati dall’espandersi senza soluzione di continuità dei contesti urbani possono avere quelle caratteristiche di resilienza che garantiscono, nel giro di poco, una più alta qualità di vita ai propri residenti.
In un mondo interconnesso pensiamo alle mutate condizioni lavorative, spesso digitali in cui i giovani potrebbero non essere legati ad un unico luogo lavorativo per tutti i mesi dell’anno.
In un mondo sempre più caldo e con fenomeni metereologici estremi, pensiamo ai servizi ecosistemici che le aree oggi marginalizzate assumono, e che potrebbero essere monetizzate.
In un mondo che va verso la decarbonizzazione, pensiamo a come una comunità energetica sia naturalmente più realizzabile in territori con grandi disponibilità di spazio e di risorse pulite: vento, sole, biomassa, cogenerazione, geotermia. - La contaminazione dei saperi fa crescere tutta la comunità
A più riprese durante i giorni della scuola è emerso il rapporto virtuoso che i giovani possono instaurare per accompagnare i processi di transizione delle comunità.
Magari sbagliando con idee non realizzabili, magari peccando di presunzione, magari immaginando lo snaturamento del patrimonio o la rivoluzione copernicana dei rapporti sociali.
È importante però che l’Università ragioni in modalità transdisciplinare e non settoriale; e che i giovani universitari siano chiamati a contestualizzare i saperi esperti che imparano, si “sporchino le mani” con scelte applicative e di prospettiva, aprano contesti di ascolto con i problemi reali.
Sorprendente l’emersione di una chiave di lettura “pedagogica” all’interno dei processi sociali e dei rapporti professionali
L’esperienza è stata più ricca di questa sintesi, ovviamente.
Abbiamo parlato di mobilità lenta e mobilità ad alta velocità; di marginalità dei servizi e di isolamento della connettività; di rigenerazione degli spazi pubblici per dare spazio alla rigenerazione delle relazioni tra i privati; di cultura e di arte come asset strategici intergenerazionali (graffiti, sculture sonore, cinema, musica, architetture votate alla spiritualità); di cammino come esperienza umana prima ancora che esperienza turistica; dei rischi della “turistificazione” e delle opportunità del turismo “rigenerativo”; di capacità di carico degli ecosistemi culturali oltre che di quelli naturali; di semiotica del paesaggio e di beni comuni.
Ma è stato sorprendente l’emersione, tra ingegneri e architetti, di una chiave di lettura “pedagogica” all’interno dei processi sociali e dei rapporti professionali che, in fondo, ha tenuto unita l’esperienza che stavamo vivendo nel contesto formativo con l’esperienza della “vita vissuta” dei partecipanti.
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