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La globalizzazione oggi

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 4 minuti

Un fenomeno contradittorio, che “divide mentre unisce” (Bauman), non ha reso il mondo più pacifico. Il risultato della globalizzazione è ad alto potenziale polemogeno, perché i fattori dominanti delle relazioni internazionali sono economici, radicati in alcuni grandi complessi statali.

Vittorio Emanuele Parsi ha scritto, nel suo celebre Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Bologna, il Mulino, 2018), che “ è esperienza fin troppo comune quella di vivere il crepuscolo di un’epoca che ci era stato fatto credere avrebbe segnato il trionfo dei valori liberali, contrassegnata da una crescente e più equamente distribuita opulenza, dalla rarefazione dell’insorgenza della guerra, dalla generalizzata espansione della tutela di quei diritti individuati durante l’Illuminismo e così faticosamente conquistati e difesi nel corso del Novecento.” Un’epoca che “ci era fatta credere avrebbe segnato il trionfo dei valori liberali”, dunque un’apparenza che – lo si afferma nel 2018 – si è dissolta in un quadro statal-nazionale con democrazie liberali “sballottate tra demagogia populistica e tecnocrazia oligarchica” (ibid.).

L’ordine globale neoliberale

L’ordine internazionale liberale, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, sarebbe stato progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale, con crisi della leadership americana e con l’“emergere delle potenze autoritarie di Russia e Cina, della polverizzazione della minaccia legata al terrorismo jihadista, della deriva revisionista degli Stati Uniti di Donald Trump”.

Poi sono venute la crisi pandemica, con una solidarietà internazionale contraddittoria, ma reale, e l’aggressione russa all’Ucraina che ha spaccato il mondo in “filo-ucraini” e “filo-russi”. E se, nei primi anni Novanta del secolo XX, si era proclamata la “fine degli Stati-Nazione”, ora si è costretti a riconoscere che la fine dei piccoli Stati-Nazione ha comportato – ma fin dal termine della Seconda Guerra Mondiale – l’ascesa di grandi blocchi finanziario-militari e, quindi, politici, non necessariamente “Stati”, ma alleanze piuttosto strette tra Stati attorno a uno Stato egemone, come la NATO (comprendente, pressoché per intero, l’Unione Europea), la Cina, nonché la questione delle materie prime (sia alimentari, sia di rilevanza per l’informatica) e il ruolo relativamente meno attivo di aree, comunque, integrate al loro interno, come l’Unione Africana e il MERCOSUR in America Latina.

Un fenomeno dai molti aspetti

Può non essere inutile riesaminare, nonostante il fatto che non manchino messe a punto assai utili (come la voce italiana di Wikipedia dedicata al termine “Globalizzazione”), innanzitutto il campo semantico del termine “globalizzazione” (nei paesi francofoni: “mondializzazione”).

Il termine “globalizzazione”, com’è noto, è stato usato da Theodore Levitt in un saggio del 1983, Globalization of Markets per designare ampi trust nazionali e, in genere, grandi imprese; nel corso degli anni Novanta del secolo scorso il termine è stato usato per designare l’insieme di processi in grado di portare alla formazione di una singola società globale, di un sistema di interazioni economiche assai intense fra località distanti, di una “coscienza mondiale” come insieme; ma è stato Zygmunt Bauman (Dentro la globalizzazione. Conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 2001) a notare il carattere fortemente contraddittorio del fenomeno: la globalizzazione “divide mentre unisce e le cause della divisione sono identiche alle cause che promuovono l’uniformità del globo”; si tratta di un fenomeno complessivamente in grado di ridurre la conflittualità internazionale e di esasperarla; un fenomeno, dunque, particolarmente ambiguo.

Si tratta di un fenomeno dai molti aspetti: abbiamo una globalizzazione economica che consiste nel dispiegamento del libero mercato, una globalizzazione spaziale relativa ai fenomeni migratori e alla velocizzazione dei sistemi di trasporto, una globalizzazione legata al potenziamento e alla velocizzazione dei flussi di informazione, con conseguenze sul piano antropologico-culturale e sul piano psicologico (globalizzazione dei timori in merito a pandemie, guerre); abbiamo una globalizzazione giuridica con l’universalismo dei diritti, una globalizzazione politico-istituzionale, con la diffusione del modello di regime liberal-democratico (che, a tutt’oggi, tuttavia, interessa soltanto il 46% degli Stati del mondo), una globalizzazione amministrativa, perché tutti gli Stati del mondo sono connessi da regole dettate da numerosi (oltre 2000) organismi internazionali, settore per settore.

Il rischio di guerre non si è ridotto, anzi è aumentato

La communis opinio fa risalire il fenomeno complessivo della globalizzazione agli inizi degli anni Ottanta del XX secolo, ma l’economista Amartya Sen, (Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2003) ritiene che la globalizzazione operi da un millennio.

Questo complesso fenomeno avrebbe diminuito la sovranità degli Stati e, stante la diagnosi liberale sul carattere polemogeno della forma-Stato, avrebbe dovuto ridurre i rischi di guerra a livello internazionale. Ma le parole di Parsi citate all’inizio mostrano che i fatti non sono andati in questa direzione quanto alla riduzione del rischio di guerre: guerre in Iraq, guerra in Afghanistan, (per menzionare soltanto le più note) e, ora, quando sono in corso circa sessanta guerre, anche la guerra in Ucraina.

La globalizzazione ha ridotto la sovranità di alcuni Stati, ma non le guerre, vale a dire che non ha reso il mondo più pacifico rispetto al mondo dell’epoca della Guerra fredda. Il che significa che la causa delle guerre non era legata alla sovranità statale, ma ad altri fattori rispetto ai quali la sovranità statale è soltanto uno strumento. I fattori dominanti delle relazioni internazionali sono, infatti, fattori economici, spinte economiche radicate in alcuni grandi complessi statali.

Quella che è stata definita “globalizzazione” è stata, in realtà, come ha scritto Serge Latouche, l’“occidentalizzazione del mondo”: per “Occidente”, naturalmente, non si può che intendere “USA e UE”; ma non basta: non va sottovalutata la portata globalizzante delle dinamiche commerciali cinesi, delle dinamiche commerciali indiane. Sembra che se ne debba concludere che la globalizzazione è un complesso di strumenti (di diplomazia e politica economica) di cui i grandi Stati o i grandi complessi di Stati si servono sul piano finanziario e produttivo.

Friedrich Wilhelm Nietzsche ha scritto (Frammenti postumi 1887-1888) che la “politica del futuro” sarebbe stata la “Grande Politica” con protagonisti grandi unioni di Stati, fra cui l’Europa unificata, nella lotta per il dominio del mondo. Se all’espressione “dominio del mondo” aggiungiamo l’aggettivo composto “tecno-finanziario”, otteniamo un risultato semantico assai distante dall’attuazione della pace internazionale, ad alto potenziale polemogeno: un risultato semantico designante la realtà che, forse, si sta già preparando.