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“Ne ho davvero bisogno?” – Intervista a Sara Mancabelli, co-fondatrice della Rete Zero Waste

| Chiara Pedrocchi

Tempo di lettura: 9 minuti

“Ne ho davvero bisogno?” – Intervista a Sara Mancabelli, co-fondatrice della Rete Zero Waste

Genesi di una rete imperfetta. La difficile, ma non del tutto impossibile, impresa di ridurre il più possibile i rifiuti alla fonte. Ma occorre una transizione culturale profonda. Parola di Zero Waste.

Come prima domanda ti chiederei di fare una piccola introduzione all’argomento. Cos’è la Rete Zero Waste e come è nata? È una realtà solo italiana o siete in collegamento anche con una sorta di rete internazionale?

La Rete Zero Waste è un progetto che nasce in maniera assolutamente informale intorno al 2016/2017 come una chat di Instagram in cui ci siamo trovate da diverse parti d’Italia con l’interesse comune per i temi Zero Waste. Abbiamo visto che c’era sempre più attenzione rispetto a queste tematiche ma non c’erano contenuti in italiano: c’erano articoli in inglese e in francese. Quindi dalla chat di Instagram ci siamo spostate a una chat di WhatsApp dove sono entrate più di 100 persone e da lì è nata nel 2017 l’idea di creare il sito, dove abbiamo iniziato a tradurre dei contenuti su questi argomenti creati da persone che già se ne occupavano, come Bea Johnson in America.

rete zero waste
Vivere Zero Waste non significa essere perfetti, ma iniziare un percorso

Poi c’era già l’esperienza della Rete Zero Waste francese, che era già abbastanza sviluppata e ha fatto una lotta gigantesca per poter portare i propri sacchetti nei supermercati, e quindi ha fatto da esempio anche per noi. Poi dal sito siamo passati ai social, alla mappa per dare alle persone uno strumento concreto per trovare i punti di vendita sfusi, i negozi dell’usato ecc. Quindi è nata un po’ così, per cercare di essere utili e per fare sensibilizzazione e da un certo punto di vista anche divulgazione: fra i membri della rete c’erano anche persone che si occupano di ingegneria ambientale, ingegneria dei materiali, economia, c’era una biologa marina. Poi c’erano persone come me che si occupano invece di comunicazione per cercare di arrivare a un pubblico sempre più grande per sentirci anche meno soli, e da qui anche il nome “Rete”, per collegare persone in tutta Italia che potessero darsi manforte a vicenda. Abbiamo avuto dei contatti con la Rete francese e con delle realtà in Spagna, e poi c’è una Rete a livello europeo che fa un po’ da collettore, però sono tutti progetti staccati, indipendenti, che hanno più o meno lo stesso obiettivo.

Un percorso di consapevolezza

Secondo te si può parlare di stile di vita quando si parla di Zero Waste? Quali sono gli ambiti che tocca?

Lo Zero Waste è più un percorso che uno stile di vita. Si può definire anche così, ma è un percorso all’interno del quale una persona inizia ad avere un approccio diverso nei confronti delle proprie abitudini di acquisto, verso le proprie richieste anche alle aziende; quindi, cercando di essere sempre più consapevole, ed è un invito a informarsi e a ragionare di più rispetto alle proprie abitudini quotidiane. È un percorso a 360 gradi su ogni sfera della nostra vita: dall’alimentazione, sia il tipo che alimento che mangiamo preferendo tendenzialmente una dieta a base vegetale, ma anche evitando gli sprechi alimentari comprando sfuso o cercando di evitare di buttare il cibo comprando troppo per una sola persona, al metodo con cui ci spostiamo, al gestore di energia che abbiamo in casa, alla banca che scegliamo. Sicuramente c’entra il guardaroba visto che l’industria della moda è una tra le più inquinanti in assoluto, il cercare di preferire delle alternative alla fast fashion che possano garantire che lungo tutta la filiera produttiva non siano stati sfruttati dei lavoratori e non siano stati impiegati pesticidi o tinture che contengono metalli pesanti che hanno un impatto anche sulla biodiversità e sull’ambiente. È un processo che interviene su ogni sfera della nostra vita, per ognuno con i propri tempi, con le proprie capacità, volontà e risorse.

La cosa bella del percorso Zero Waste è proprio che è molto soggettivo. Spesso quando si pensa Zero Waste si pensa a evitare l’imballaggio, ed è associato al plastic free. Ma non è solo quello: è un discorso molto più ampio. È una parola contenitore, ma l’obiettivo è fare ognuno la propria piccola parte per unirci, nonostante siamo ben consapevoli che le azioni devono arrivare dall’alto, dalle istituzioni, dalle politiche che mettono le regolamentazioni sulle aziende molto più grandi e ci sono dei costi che sono quelli che effettivamente poi hanno l’impatto molto più grande rispetto al piccolo soggetto. Vogliamo creare una cultura dal basso che permetta alle persone di prendere coscienza anche del proprio potere in qualità non solo di consumatori ma anche di cittadini nel muovere anche i mercati verso questa direzione. Sembra un concetto gigantesco per la singola persona, però di fatto anche la nuova sensibilità che hanno le aziende rispetto ai temi della sostenibilità e anche tutti i casi di Green Washing sono proprio dovuti al fatto che anche le aziende si sono accorte che i cittadini e le persone comuni hanno a cuore anche questi valori. Adesso c’è un bacino di utenti, la Generazione Z, che saranno i futuri non solo votanti ma anche i futuri membri della società con un potere di acquisto molto forte e che quindi le aziende cercano di accontentare: non è vero che le nostre azioni non contano.

Il vero prezzo delle cose: “chi più spende meno spende”

Ti faccio una domanda un po’ provocatoria: secondo te costa di più vivere Zero Waste? Quali sono le difficoltà di questa scelta?

Questa è una domanda gettonatissima. Sicuramente ci sono delle cose che magari costano di più perché siamo anche disposti a pagarle di più sapendo che sono sostenibili, ma dietro questi costi spesso c’è una parte di qualità del prodotto, di pagamento anche alla persona che ha lavorato a quel prodotto che in alcune industrie, come nella fast fashion, viene a mancare. Lì perché il bene costa poco? Perché qualcun altro lungo la filiera ha pagato il prezzo per noi. Ci siamo un po’ disabituati al vero prezzo delle cose. È vero anche che su alcuni prodotti spacciati come Green c’è un rincaro proprio perché i consumatori, essendo più attenti e disposti a spendere di più per una cosa che pensano faccia bene all’ambiente, si alzano.

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Ti faccio un esempio concreto. La coppetta mestruale è un investimento: paghi 30 euro all’inizio e ti dura anni rispetto ad acquistare gli assorbenti ogni volta. Oppure il vantaggio, per esempio, di comprare sfuso è che magari al kilo costa di più, ma per esempio una persona singola che acquista prodotti sfusi in quantità necessaria per sé e la usa tutta magari trova un vantaggio in questi termini, nel comprare in minore quantità senza avanzi. Si tratta di trovare il giusto compromesso: anche, per esempio, nell’abbigliamento e nell’oggettistica se io decido di investire su un solo capo o su un solo oggetto che so che mi durerà, che avrà un valore per lungo termine, piuttosto che nel comprarne uno più economico ma che si romperà dopo poco e che dovrò ricomprare, d’impatto il primo sembra più costoso, ma è un investimento. Sull’usato, poi, spesso si trovano prezzi vantaggiosi. Si tratta un po’ di trovare l’equilibrio.

Serve una transizione culturale

Un’altra domanda un po’ provocatoria: hai mai percepito o pensi ci possa essere nella bolla di persone attente alle tematiche green un giudizio nel momento in cui una persona fa uno scivolone? Come lo giustifica a sé e agli occhi degli altri?

Succede tantissimo, soprattutto quando ti metti in gioco e parli di alcuni argomenti, e allora c’è un mondo di gente che vuole farti le pulci. Mi fa ridere che invece di pensare a cosa possiamo fare noi per fare la nostra piccola parte si sta a guardare gli altri perché non sono perfetti, perché magari dicono una cosa e si trovano per esigenze anche superiori in una situazione per cui si devono comportare in maniera diversa. Su questo tema noi come Rete avevamo creato il format su Instagram della Rete Imperfetta, in cui ci abbiamo messo la faccia in un periodo in cui ancora c’era quell’estetica dello Zero Waste in cui tutto doveva essere senza plastica, perfetto, bellissimo e si era creato una sorta di consumismo delle cose che dovevi avere per essere uno Zero Waste perfetto.

Ognuna di noi, delle co-fondatrici, ha detto una delle azioni in maniera anche un po’ provocatoria che non sono Zero Waste. Per esempio, utilizzare l’aereo, le lenti a contatto, i post-it, mettere lo smalto… per far capire che non è quello l’obiettivo. Lo “Zero” di Zero Waste o comunque la visione utopica dell’attivista green che poi è perfetto nella vita privata non esiste perché viviamo in una società che non è costruita per questo: saremmo dei disadattati. Non saremo noi con lo spazzolino in bambù a salvare il mondo: quello che serve è proprio un cambiamento culturale più diffuso, più a livello di massa.

Difendersi dal “greenwashing”

Come orientarsi in questo mondo dove viene fatto greenwashing anche all’interno dell’ambito della sostenibilità? Quali strumenti può utilizzare o meno una persona per capire se valga la pena comprare quel determinato oggetto?

Capire il greenwashing è difficilissimo perché adesso tutte le aziende comunicano la loro sostenibilità prima ancora di averla messa in atto. Quello che possiamo fare è cercare di informarci il più possibile, andare a vedere sui siti. Quando un’azienda dice per esempio “sono sostenibile perché mi adeguo alle regole di sostenibilità aziendali” è non vuol dire niente: quali sono queste regole? Quali sono le normative a cui fa riferimento? Quali sono i dati concreti? Si può anche magari scrivere una mail a questa azienda e chiedere perché dichiarino questa cosa, anche se mi rendo conto che non tutti hanno voglia, tempo, la forza anche di poter fare. E poi molto spesso tutto ciò di cui abbiamo bisogno ce l’abbiamo già; quindi, bisogna cercare di guardare prima quello di cui siamo già in possesso per capire se magari potremmo fare a meno di acquistare nuovi oggetti, nuovi beni o servizi, oppure li possiamo comprare usati, li possiamo scambiare con qualcuno, li possiamo ricevere in prestito. Ci sono varie opzioni che possiamo implementare nella nostra quotidianità per evitare un nuovo acquisto, soprattutto cercando di porsi sempre la famosa domanda “ne ho davvero bisogno?”. È un po’ questo il cambio di approccio di cui dovremmo farci un po’ carico tutti.

Poi ci sono i dati: i dati sono la base da cui partire per andare a vedere che per esempio forse, a volte, la plastica riciclata è più sostenibile rispetto al vetro perché nel trasporto ha un peso minore, perché comunque il vetro ha più possibilità di rompersi, perché è un materiale, è vero, inerte, che non rilascia niente nell’ambiente, ed è infinitamente riciclabile, ma non ha solo vantaggi, e quindi in questo gli studi ci permettono di andare oltre gli slogan del “liberiamoci dalla plastica e siamo tutti plastic-free!” perché è comunque un materiale che se non abusato può avere un senso, può avere un’utilità anche nel poter essere più sostenibili. Dire una cosa così 5 o 6 anni fa era il sacrilegio: ci siamo arrivati perché abbiamo imparato, ci sono stati studi che ci hanno permesso di cambiare idea. Certo, se fossimo stati così lungimiranti da fare questi studi negli anni ’70 quando già c’era l’allarme crisi climatica e gli scienziati l’avevano già previsto, forse adesso non saremmo così presi dall’ecoansia di estinguerci perché tra pochi anni non ci saranno più le temperature per vivere in maniera serena su questo pianeta.

Come mai hai scelto di condividere online le tue scelte tramite il tuo blog e la tua pagina Instagram? Quali sono stati i pro e quali i contro di questa decisione?

Il blog è nato come progetto universitario, parlava più che altro di autoproduzione, di cosmesi, ed era un progetto collettivo. Quando l’ho preso in mano da sola ho deciso di impostarlo più sullo Zero Waste, sul mio percorso di presa di coscienza di quello che potevo fare a livello individuale. Scivoloni ne ho fatti tantissimi anche io, dal farmi prendere da questo consumismo green andando a comprare per esempio l’Oriculì, per poi chiedermi “la sostenibilità è questa? È cercare di avere tutto ma green? O è cercare di ridurre e rispettare le 5 R della piramide delle 5 R, che sono Rifiutare, Ridurre, Riusare, Riciclare, Ridurre in compost …?”. Per le critiche… è come se la mia community, piccolina, fosse cresciuta con me, c’è stato un percorso di evoluzione. Poi sicuramente tante persone le ho perse per strada, alcune si stanno aggiungendo adesso; quindi, il mio Instagram è un po’ un posto dove ritrovarsi, dove crescere insieme.

Nessuno di noi è nato imparato, il primo studio sui prodotti solidi è arrivato quest’anno, dopo che sono in commercio da quasi dieci anni. E cosa è stato dimostrato tra l’altro anche lì? Che l’impatto più grande lo dà la velocità con cui ci laviamo, quindi quanta acqua sprechiamo, e a che temperatura usiamo l’acqua. È un mondo molto in evoluzione: non ci sono studi su tutto. Gli scivoloni ci sono anche perché uno a volte va un po’ a sentimento, perché è un ambito a cui ci siamo interessati e ci stiamo interessando soprattutto adesso che siamo un po’ già oltre il limite. Ti dico la verità: critiche negative sul mio personale profilo di Instagram non ne ho ricevute se non forse in questi 6, 7 anni due persone, palesemente troll. Sul profilo della rete alcune critiche che sono arrivate soprattutto nei primi anni, intorno al 2017, erano sul tema veganesimo: adesso nella bolla social non puoi non esserlo, all’epoca se eri vegana eri estremista.

Un’azione che è anche politica

Definiresti questa scelta una scelta politica oltre che uno stile di vita? Se sì, come si ricollega ad altre forme di attivismo?

Tutte le azioni di cui parliamo non sono solo personali, ma sono politiche e collettive nel momento in cui le fai non solo per te, ma anche per l’umanità e per il pianeta, che sembra una cosa gigantesca da dire in questo modo, sembra anche un po’ egoriferita, ma di fatto è molto importante, soprattutto se prendi posizione e con la tua azione e con le tue parole se ne parli anche pubblicamente cerchi di far capire le tue ragioni. E quindi assolutamente, mangiare vegano non è solo una scelta personale, come non lo è prendere i mezzi pubblici o spingere perché la città offra alternative, come lo è il fatto di portare le mie buste a fare la spesa. Non ci sono azioni fini a se stesse, soprattutto se si prende posizione in maniera pubblica.

Cosa vuol dire far parte della Rete e come le si può dare supporto?

Entrare a far parte della rete vuol dire entrare a far parte di una comunità di persone che hanno valori simili, che condividono l’amore per la natura, per il nostro pianeta e per le creature che ci vivono. Sul come supportarla, in maniera soft seguendoci sui nostri social, sui nostri canali, sul sito eccetera, e per chi vuole c’è sempre la possibilità di diventare volontario, di seguire un progetto, di darci una mano con la scrittura dei contenuti, piuttosto che con la gestione dei gruppi locali, che è un progetto con cui usciamo un po’ dagli schermi per organizzare eventi culturali, swap party, cineforum, workshop di autoproduzione. Siamo sempre alla ricerca di persone che abbiano voglia di fare con noi la differenza.

Scrive per noi

Chiara Pedrocchi
Chiara Pedrocchi
Laureata in triennale in Lettere Moderne all’Università di Siena e in magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Torino. Oltre che per .eco scrive per Scomodo e VeganOK, e in passato ha collaborato con Lo Sbuffo e ViaggiNews.com. Aspirante giornalista, si interessa di ambiente, diritti umani e sessualità.