Il racconto di febbraio di Giorgio Nebbia addolcisce un po’ la lettura delle statistiche sull’occupazione e l’andamento dell’economia. Aspettando le elezioni politiche del 24-25 febbraio per sapere se la pillola sarà più o meno amara…
Lo zucchero, il saccarosio, quella sostanza dai bei cristalli bianchi che mettiamo nel caffè e nei dolci, sembra, dal punto di vista della tecnologia chimica, abbastanza insignificante. Eppure la sua produzione “industriale” ha oltre duemila anni di vita e in questo lungo periodo la sua estrazione e raffinazione ha richiesto la soluzione di molti problemi tecnico-scientifici che hanno trovato applicazione in molti altri settori industriali.
Una storia cominciata oltre 2000 anni fa
La prima produzione di zucchero estratto dalla canna è cominciata qualche secolo prima dell’era cristiana in India; le canne venivano frantumate, ne veniva separato il succo che si trova all’interno della canna, fra i nodi, e questo succo veniva concentrato per evaporazione dell’acqua fino ad ottenere una soluzione concentrata dalla quale, per raffreddamento, lo zucchero cristallizzava in forma impura ma tuttavia ricercata per il suo sapore dolce; l’altro dolcificante disponibile nell’antichità era il più costoso miele. Dall’India i mercanti portarono lo zucchero nei paesi del Mediterraneo nei quali era una merce di lusso; era comunque noto a Dioscoride, il grande autore greco di un trattato di botanica, farmacologia e merceologia, vissuto a Roma nel I secolo dopo Cristo.
I progressi degli Arabi
Con l’espansione dell’Islam, dal VII secolo in avanti, la coltivazione della canna e la tecnica di produzione dello zucchero passarono in tutti i paesi occupati dai Musulmani, in Mesopotamia, nell’Asia Minore, nel Nord Africa, in Spagna e in Sicilia, sempre con la stessa tecnologia, ben descritta da Ibn al-Awwam nel XII secolo: «Ecco il processo di produzione dello zucchero. Si tagliano le canne da zucchero quando hanno raggiunto la maturità, si tagliano in piccoli pezzi che sono ben spremuti entro presse o in apparecchi simili. Poi si fa bollire l’estratto e lo si lascia riposare per un certo periodo di tempo; poi lo si filtra e poi lo si fa bollire di nuovo fino a quando il suo volume è un quarto di quello originale; il sugo risultante viene versato in vasi di terracotta di forma speciale e viene tenuto al buio fino a che indurisce e cristallizza. Il residuo non viene buttato via ma serve come nutrimento per i cavalli a cui piace e che ne ricavano energia».
C’era molta saggezza nelle parole dell’autore che sapeva che dalla raffinazione dello zucchero si può recuperare il melasso, una densa soluzione contenente ancora un po’ di saccarosio, altri zuccheri, sali, amminoacidi e altre sostanze azotate, utile per l’alimentazione del bestiame.
Il colonialismo: lo zucchero scopre l’America
I crociati, nel ritorno dalla Palestina, portarono la conoscenza dello zucchero “arabo” in Occidente; cominciarono così le importazioni in Europa di zucchero greggio che, già intorno al 1200, veniva raffinato nelle repubbliche marinare come Venezia e Genova, un primo passo verso la globalizzazione merceologica. Con la conquista delle Americhe, spagnoli e portoghesi trovarono nel nuovo continente condizioni climatiche tropicali adatte alla coltivazione della canna e fu così avviata una produzione di zucchero “coloniale” americano che veniva esportato in Europa e raffinato nei grandi porti ed empori di Anversa, Amsterdam, Amburgo e in Inghilterra. La coltivazione della canna e l’estrazione dello zucchero divennero convenienti economicamente “grazie” (si fa per dire) alla mano d’opera gratuita schiava che veniva importata dall’Africa. La produzione dello zucchero di canna si estese anche negli stati meridionali del Nord America.
Dal 1700 in avanti lo zucchero, monopolio di pochi paesi “coloniali”, divenne una merce richiesta dalle classi agiate europee. La tecnologia non era cambiata molto, se si eccettua una migliore valorizzazione dei sottoprodotti; i residui di canna (bagasse) dopo l’estrazione del succo zuccherino servivano come combustibile per le caldaie di concentrazione e il melasso veniva utilizzato per produrre bevande alcoliche fra cui era rinomato il rhum.
Nell’estrazione dello zucchero di canna era stato osservato che il succo greggio contiene degli acidi che provocano l’inversione, la trasformazione del saccarosio nei suoi zuccheri componenti, glucosio e fruttosio, lo “zucchero invertito”. Per evitare questo inconveniente le soluzioni zuccherine erano neutralizzate per aggiunta di calce che veniva poi eliminata con anidride carbonica, quella stessa liberata nei forni a calce; precipitava così gran parte delle impurità e restava in soluzione lo zucchero, più facilmente concentrabile e recuperabile.
E la Germania scopre il surrogato
Nel 1806 Napoleone, per danneggiare l’economia della nemica Inghilterra praticò il blocco delle importazioni delle merci inglesi, fra cui lo zucchero, nell’Europa occupata dai francesi, una iniziativa che spinse a cercare dei surrogati dello zucchero di canna. Qualche decennio prima il chimico tedesco Andreas Marggraf (1709-1782) aveva scoperto che la barbabietola, una pianta diffusa nei climi temperati, conteneva nelle radici lo stesso zucchero presente nella canna; nelle prime prove, pubblicate nel 1747, estrasse lo zucchero con alcol etilico e successivamente provò a spremere dalle barbabietole un succo che riuscì a purificare e concentrare. Lo zucchero ottenuto era di buona qualità, ma Marggraf pensava che potesse rappresentare soltanto un “surrogato” di quello coloniale e non la materia prima per un’industria autonoma, europea.
Franz Achard (1753-1821), il successore di Marggraf alla cattedra di fisica di Berlino, continuò le ricerche con un chiaro obiettivo economico e industriale; costruì una piccola raffineria e nel 1799 presentò i suoi risultati al re di Prussia Federico Guglielmo III che assegnò un premio ad Achard; nel 1802 a Kunern, in Slesia, fu avviata una prima coltivazione di barbabietola da zucchero e fu costruito uno zuccherificio sperimentale che ebbe però breve vita.
Negli anni dal 1805 al 1820 in Germania sorsero altri due zuccherifici, uno ad opera del barone Moritz von Koppy (al quale va il merito di aver selezionato e migliorato le qualità delle barbabietole e di aver coltivato le barbabietole bianche della Slesia, dalle quali derivano tutte le varietà oggi coltivate in Europa), l’altro ad opera di Johann Placke (1765-1833) che a Magdeburgo costruì il primo vero zuccherificio industriale; per accattivarsi il favore dei clienti vendeva il suo zucchero come “zucchero coloniale”.
Napoleone alla campagna dello zucchero
Napoleone comprese subito che una produzione francese di zucchero di barbabietola avrebbe reso più efficace il blocco contro le merci inglesi ed emise, nel 1811, un decreto per incoraggiare ed estendere la coltivazione della barbabietola in Francia e per l’istituzione di scuole tecniche per l’industria saccarifera. Il 2 gennaio 1812 furono presentati a Napoleone i primi pani di zucchero fabbricati a Plassy da Benjamin Delessert (1773-1847), nel cui stabilimento lavoravano degli operai spagnoli, prigionieri di guerra, pratici della lavorazione dello zucchero di canna. Nel 1813 funzionavano in Francia 334 zuccherifici con una produzione di 4.000 tonnellate di zucchero. Nello stesso periodo una fabbrica di zucchero fu impiantata per breve temp o anche a Borgo San Donnino (oggi Fidenza), nel Regno Italico.
I successivi sviluppi industriali
In seguito alla caduta di Napoleone nel 1814 i porti europei si riaprirono alle merci delle colonie; le iniziative europee di produzione dello zucchero di barbabietola furono rallentate ma non scomparvero. L’industria saccarifera francese continuò a svilupparsi dal 1820 al 1825; nel 1826, favorita da una tassa sullo zucchero di canna e dall’aumento di prezzo dello zucchero di canna in seguito alla graduale abolizione della schiavitù, in Francia furono prodotte 24.000 t di zucchero e nel corso dell’800, sia pure lentamente, la coltivazione della barbabietola e la produzione di zucchero si estesero in tutta Europa e anche in Italia. Nel 1836 il conte di Cavour iniziò la coltivazione della barbabietola nella propria tenuta a Grinzane, intuendo la grande importanza che essa avrebbe potuto assumere nel futuro
L’estrazione industriale dello zucchero di barbabietola poneva alcuni nuovi problemi tecnici; a differenza dello zucchero di canna, già presente in soluzione, nelle barbabietole lo zucchero è contenuto nelle cellule del tubero e deve essere estratto con acqua per osmosi attraverso le pareti cellulari. Nel 1821 Mathieu de Dombasle (1777-1843) capì che l’estrazione era facilitata se le barbabietole erano tagliate in sottili strisce, le fettucce, larghe circa un centimetro e lunghe una diecina di centimetri. L’estrazione doveva avvenire a caldo immergendo le fettucce in acqua calda entro apparecchi detti diffusori. Dapprima la diffusione avveniva in maniera discontinua per immersioni successive delle fettucce, ma ben presto fu messa a punto la tecnologia di diffusione controcorrente in diffusori in serie, in ciascuno dei quali le fettucce incontravano la soluzione proveniente dal diffusore successivo, già contenente zucchero e cedeva una parte del proprio zucchero; dal diffusore di testa usciva una soluzione zuccherina diluita, il sugo “leggero”, contenente praticamente tutto lo zucchero originariamente presente nelle barbabietole e da quello di coda venivano scaricate le fettucce esaurite che in genere venivano essiccate e usate come alimento per il bestiame.
I sistemi di diffusione furono perfezionati intorno al 1860 da Julius Robert (1826-1888) le cui “batterie” furono utilizzate per molti decenni fino agli anni quaranta del Novecento in cui l’americano Harold Farnes Silver (1901-1984) inventò il processo di estrazione dello zucchero dalle barbabietole per diffusione continua in un lungo tubo orizzontale inclinato nel quale le fettucce di barbabietola si muovevano controcorrente rispetto all’acqua di estrazione.
Nella diffusione dalle barbabietole, come anche nel lavaggio delle canne da zucchero frantumate, l’acqua scioglie sia il saccarosio sia varie sostanze azotate e sali, sia una parte di zucchero “invertito”, tutte sostanze che intralciavano la successiva cristallizzazione del saccarosio. Il sugo leggero è stato sempre parzialmente purificato con un processo di “defecazione” consistente nell’addizionare idrato di calcio che, precipitando come carbonato per aggiunta di anidride carbonica, assorbe una parte delle sostanze estranee.
La fase successiva consisteva nella concentrazione della soluzione zuccherina, il sugo leggero, ed era simile nel caso dell’estrazione dalla canna o dalla barbabietola. Per la concentrazione del sugo leggero già nella metà dell’Ottocento le caldaie furono sostituite con distillatori a multiplo effetto sotto vuoto, col che si evitava l’eccessivo riscaldamento e la caramellizzazione (imbrunimento) dello zucchero e si consumava meno energia; il calore del vapore estratto dalla prima camera di evaporazione scaldava l’acqua nella camera successiva tenuta a pressione inferiore a quella della precedente e così via fino ad ottenere la “massa cotta”, una soluzione calda e soprassatura di zucchero.
A questo punto occorre far cristallizzare lo zucchero nelle dimensioni volute tenendo sotto osservazione i primi cristallini che si formano e che saranno i nuclei di cristallizzazione del saccarosio nell’intera massa cotta. Nei primi anni dell’industria saccarifera italiana venivano fatti venire dalla Boemia, dove esisteva già una industria saccarifera progredita, degli operai, un po’ specialisti e un po’ maghi, per la “cottura” dello zucchero..
A questo punto la massa cotta viene centrifugata per separare i cristalli di zucchero; si recupera così circa l’80 % dello zucchero originariamente presente e si ottiene un liquido denso e viscoso, di colore bruno, il melasso, che contiene circa il 50 % di saccarosio, il 30 % di non-zuccheri e il 20 % di acqua. Ad esempio da 100 kg di barbabietole si ottengono circa 15 kg di saccarosio cristallino e circa 5 kg di melasso che contengono ancora circa due chili e mezzo di zucchero.
Le invenzioni di Steffen
Col progredire della richiesta e della produzione dello zucchero si formavano anche crescenti quantità di melasso e furono perciò messi a punto dei processi per recuperare anche lo zucchero presente nel melasso, altrimenti usato per la produzione di alcol o di bevande alcoliche. Il primo e molto diffuso processo di dezuccherazione del melasso, dovuto all’austriaco Carl Steffen, consisteva nel diluire il melasso, nell’aggiungere un eccesso di calce in modo da far precipitare il saccarato tricalcico, una sostanza dalla strana composizione C12H22O11.3CaO, che veniva poi filtrato e scomposto sospendendolo in acqua e addizionando anidride carbonica proveniente dai forni a calce. Il carbonato di calcio precipitato veniva calcinato per ottenere altra calce e anidride carbonica. Il saccarato tricalcico, invece di essere scomposto per recuperare lo zucchero,, poteva essere addizionato al sugo leggero in modo che si evitava la defecazione con calce e si rimetteva in ciclo lo zucchero proveniente dal melasso.
In ogni caso restava un residuo, il “filtrato Steffen”, ricco di amminoacidi e di sostanze azotate fra cui betaina e glutammina e vari sali, usato in varie occasioni come fonte di materie prime (per esempio del glutammato monosodico) o di concimi.
In Europa fu utilizzato piuttosto il processo di dezuccherazione dei melassi per baritazione, consistente nell’aggiungere al melasso diluito idrato di bario; il saccarato di bario precipitato, era sospeso in acqua e decomposto per aggiunta di anidride carbonica con precipitazione di carbonato di bario che veniva poi rigenerato. La soluzione purificata di saccarosio veniva poi rimessa nel ciclo produttivo.
L’interesse per il recupero dello zucchero dai melassi sia di canna sia di barbabietola dipendeva da condizioni di mercato e dalla lotta fra industriali, che avevano interesse a produrre la massima quantità di zucchero dalla materia prima lavorata, e agricoltori che vedevano nella dezuccherazione dei melassi un ostacolo all’espansione della bieticoltura.
Infine l’industria saccarifera ha indotto progressi nelle tecniche analitiche e nella polarimetria dal momento che gli zuccherifici acquistano dagli agricoltori le barbabietole pagando un prezzo che dipende dalla concentrazione di zucchero, misurata partita per partita; per queste analisi erano assunti d’estate, durante la “campagna saccarifera”, studenti e professori in vacanza che guadagnavano così qualche soldo.
Rilanciare la “saccarochimica”
Le innovazioni dell’industria saccarifera sono state applicate ad altri campi della chimica industriale e hanno lasciato comunque aperti vari problemi irrisolti, per esempio sullo strato comportamento di una molecola che ha otto gruppi alcolici capaci di dare prodotti di addizione, delle specie di “sali”, con metalli, o esteri o eteri con altre molecole organiche. In questi tempi in cui si sta rivolge
ndo attenzione alle risorse naturali agricole rinnovabili, e lo zucchero lo è di sicuro, non soltanto come fonti di alcol etilico carburante; in questi tempi in cui gli zuccherifici in Italia e in Europa stanno progressivamente chiudendo con perdita di posti di lavoro nell’industria e nella bieticoltura, la ripresa delle conoscenze delle “saccarochimica” (o “sucrochimica” come la chiamano) e di tecniche dimenticate o abbandonate potrebbe offrire nuove materie commerciali.
Nel 2011 la produzione mondiale di zucchero è stata di circa 160 milioni di tonnellate, per oltre tre quarti proveniente dalla canna e il resto dalle barbabietole. La produzione italiana di zucchero, tutto di barbabietola, alcuni anni fa di circa 1,5 milioni di tonnellate all’anno, per accordi comunitari è passata purtroppo a poche centinaia di migliaia di tonnellate all’anno.
Giorgio Nebbia
(foto di Carlos Smith)
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