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Marc Augé: gratuità e coscienza ecologica

| FRANCESCO INGRAVALLE

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Marc Augé: gratuità e coscienza ecologica

Nel suo recente libro Marc Augé (Sulla gratuità. Per il gusto di farlo!, a cura di Francesca Nodari, Milano, Mimesis, 2018, pp. 76 euro 8) si interroga sulle basi dell’attenzione alla sostenibilità del vivere contemporaneo, così faticosamente emersa a partire dalla seconda metà del secolo XX. E lo fa attraverso una breve analisi critica del concetto di “gratuità”.

Francesco Ingravalle

 

La riflessione critica sulla gratuità non è nuova nel pensiero occidentale: nel 1845 Max Stirner ne dimostrava l’insussistenza filosofica e Friedrich Engels affermava addirittura “noi siamo comunisti per egoismo!” Non mi posso proporre alcun fine prima di averne fatto una cosa mia, cioè egoistica.

Stirner proseguiva, con coerenza sulla strada del cosiddetto “individualismo possessivo” sviluppato da Jeremy Bentham, in parallelo allo sviluppo dell’economia capitalistica (che dell’egoismo, con Adam Smith stava facendo la base teorico-pratica di maggior rilievo). Ma già John Stuart Mill, nel saggio L’utilitarismo, dimostrava che la felicità individuale ha bisogno della felicità collettiva per potere sussistere e faceva di questa tesi la base del suo “liberalismo sociale”. In altri termini: l’idea che nel concetto stesso di gratuità ci sia qualche cosa che non funziona è un fil rouge che attraversa l’intera storia del pensiero liberale e della sua filiazione più critica, il pensiero socialista.

Il concetto di gratuità, nella formulazione criticata, si radica nel pensiero cristiano: l’atto stesso del Redentore è un esempio di sacrificio gratuito, di “altruismo”, riproposto non soltanto nelle vite dei Santi, ma, soprattutto nella celebre Imitatio Christi, che convive con una versione utilitarista della “buona novella”: fare il bene per guadagnarsi il paradiso. Le domande convergono tutte nel quesito di fondo: com’è stato possibile che la tormentata questione della gratuità nella vicenda occidentale abbia potuto mettere capo alla più fenomenale distruzione degli ambienti naturali e sociali con lo sviluppo di ciechi meccanismi fondati sul profitto? Come si rapporta il disastro ecologico alle tensioni morali implicite nella riflessione critica poco sopra richiamata?

Non ci si può di certo limitare ai “verdetti” della storia della filosofia, per vederci più chiaro. Occorre l’acutezza aggiuntiva del pensiero antropologico-culturale. Marc Augé (1935) è un antropologo speciale: tra i maggiori africanisti dei nostri tempi, è stato, negli ultimi vent’anni “una figura di riferimento anche per un’antropologia della tarda modernità” come ricorda la curatrice del volume Francesca Nodari (p. 24), un’antropologia attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità. Un’antropologia che riguarda i rapporti tra spazio e identità, tra vita e morte, tra tempo e identità, alla luce della quale Augé ha elaborato la nozione di non-luoghi (Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992, tr. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Eléuthera, 2009). Che cos’è la surmodernità? È una “accelerazione della storia, restringimento dello spazio, promozione dell’individuo consumatore” (p. 28).

L’individuo consumatore, il protagonista del disastro ambientale, il ‘cliente’ dell’organizzazione fondata sul profitto, il motore della globalizzazione economica che ha reso i ricchi del pianeta più ricchi e i poveri del pianeta più poveri, il soggetto preconizzato dall’economia politica di Adam Smith e di David Ricardo. Che cos’è il non-luogo? “uno spazio in cui viene meno la relazione sociale” (p. 27).  Nella surmodernità proliferano i “non-luoghi”: areoporti, stazioni, centri commerciali, grandi arterie stradali, “spazi nei quali si passa senza, neppure, guardare nel volto dell’Altro” (p. 28). Nei non-luoghi si attua la dimensione assoluta della libertà individuale, proprio perché in essi non ci sono relazioni sociali. Un non-luogo molto frequentato è internet che non è uno spazio di relazione, ma uno spazio di “promesse di relazione” che coincide con una solitudine inesorabile. Nei non-luoghi si profila il “rischio di un “dominio del presente”” (p. 38). L’assoluta libertà individuale, l’assenza di reali relazioni, l’assolutezza del presente sono le premesse per lo sfruttamento privo di scrupoli dell’ambiente, naturale e sociale. Ma l’assolutezza della libertà individuale è illusoria: la libertà assoluta grazie alla quale getto nel mare la bottiglia di plastica dell’acqua minerale quando essa è vuota si capovolge nella plastica che ingoierò quando mangerò un pesce pescato nel mare che ho contribuito a inquinare; l’assenza di relazioni è altrettanto illusoria, perché quello che io faccio si ripercuote sul contesto: la mia non reazione a un atto di discriminazione in un aeroporto permette all’atto di discriminazione stesso di svilupparsi senza ostacoli e di essere imitato, magari, grazie all’eco dei mezzi di informazione e ai social; l’assolutezza del presente permette di non tenere in alcun conto i danni passati e di non percepire l’urgenza di una “inversione di tendenza” nel comportamento del consumo.

Il mondo inquinato, le relazioni sociali autentiche soppresse sono l’ombra della surmodernità. Sembra un meccanismo complesso, questo, dominato da legami che al temo del filosofo tedesco Hegel si definivano “dialettici”, dotati di una ferrea necessità. Non è così; se fosse così, non potremmo fare niente. Ma Augé propone, come alternativa, una “utopia dell’educazione” che ponga il sapere come “fine in sé” (p. 46). Come può questa “utopia” contribuire a invertire la corposa tendenza fino a qui sommariamente descritta? Occorre partire dal dato emotivo che caratterizza il vissuto della surmodernità: la paura.

Anche Bauman ha rilevato questo dato soprattutto nei volumi Il dèmone della paura e Paura liquida. Se Thomas Hobbes faceva, alla metà del XVII secolo, della paura lo stimolo principale alla costruzione della società politica, Augé e Bauman ne fanno il corollario dell’isolamento del soggetto attuale il cui vissuto è efficacemente descritto così: “stress con contorno di angoscia” (p. 51). Anche qui esiste una via d’uscita. “L’ideale sarebbe rimpiazzare la paura con la curiosità. Le due non sono così lontane l’una dall’altra. È il desiderio di conoscenza che può permettere di passare dall’una all’altra. Questo desiderio stesso è il frutto dell’educazione” (p. 53).

L’educazione, come nota Francesca Nodari è l’ideale dell’Illuminismo che torna a fare capolino, spogliato di tutte le ombre che gli avevano addensato intorno Max Horkheimer e Theodor Adorno nella celebre Dialettica dell’illuminismo alla metà degli anni Quaranta del XX secolo. L’educazione illuministica era stata ritenuta solidale con la marcia del progresso capitalistico verso la distruzione del mondo. Qui Augé recupera una visione più tradizionale del secolo dei Lumi, in grado di sostenere l’affermazione “un altro mondo è possibile” che potrebbe diventare realtà in un soggetto adeguatamente educato. Era questa, in fondo, anche la visione del Positivismo e dell’Idealismo assoluto stesso; ma a questa visione Augé toglie la convinzione che esista un senso della storia umana svincolato dalle concrete decisioni dei soggetti.

L’uomo, alla fine, è il protagonista del passaggio dalla preistoria alla storia, dal regno della necessità al regno della libertà, come avevano ammonito Marx ed Engels. Ma l’uomo non come mero individuo, bensì come soggetto collettivo, come umanità generica, per usare la terminologia di Augé (p. 54 ss.). Augé si fa banditore, pertanto, di un ritorno all’umanismo: “la dimensione generica dell’essere umano unisce la sua dimensione individuale (“ciascun uomo, tutto l’uomo, per riprendere e riassumere la formula di Sartre) e trascende o relativizza la sua dimensione culturale. L’idea che l’avventura umana è in effetti un’avventura, collettiva e comune, è legata alla concezione dell’uomo generico, ma essa si gioca in ciascuna vita individuale” (p. 54). Se è così, tale dimensione sostanzia una coscienza planetaria: “ormai sappiamo di vivere su un pianeta infinitamente piccolo, in un universo infinitamente grande […] un pianeta fragile, per di più, e che trattiamo male. Tale coscienza ecologica, tale coscienza infelice, costituisce un fatto radicalmente nuovo nella storia dell’umanità. Essa è accompagnata dalla consapevolezza del fatto che lo scarto tra il più ricco dei ricchi e il più povero dei poveri non smette di crescere.” (p. 57). Se è così, allora è vero che noi siamo umanisti per egoismo, perché la causa dell’umanità è anche la nostra causa individuale, la causa profonda del nostro ego. Il mondo è come un’unica, immensa, città, è un mondo-città; un mondo di cui il filosofo e sociologo viennese Otto Neurath, nel 1942, aveva immaginato l’autogoverno dal basso nella forma di una pianificazione internazionale per la libertà (O. Neurath, L’utopia realmente possibile, Milano, Mimesis, 2016) dotata di istituzioni internazionali per una global governance, finalizzata alla liberazione di tutti gli uomini dal bisogno.

Occorre vivere il proprio luogo come parte del luogo-mondo: l’uomo ha bisogno di luoghi, di tempo e di spazio (p. 67). L’unica gratuità possibile, dunque, è il dono fatto per amore dell’umanità: nell’amore per l’umanità ciascuno di noi ama anche sé stesso e il contesto naturale senza il quale non potrebbe neppure esistere. Dobbiamo, così, a un antropologo, che ha saputo raccogliere il messaggio umanistico della filosofia occidentale, la migliore fondazione di una coscienza ecologica in senso lato. L’unico senso che possa sostenere un agire quotidiano necessariamente multiforme ed ecologicamente sostenibile.