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Populismo e Stato sociale

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 3 minuti

Populismo e Stato sociale

In Italia solo 3 euro su 100 di prestazioni sociali vanno al 10 per cento più povero della popolazione. Un nuovo saggio di Tito Boeri: il populismo come ombra dei difetti della democrazia che vanno rimossi nell’interesse stesso della democrazia

Tito Boeri, Populismo e stato sociale

Dopo Lo Stato asociale (2000) e La crisi non è uguale per tutti (2009) Tito Boeri, economista del lavoro presso l’Università Bocconi di Milano, aggredisce un argomento di attualità bruciante in un piccolo libro, Populismo e Stato sociale (Roma-Bari, Laterza, 2017): l’utilizzo, da parte dei movimenti populistici, della difesa dello stato sociale in funzione anti-europea e anti-immigrati. Così Boeri riassume la “media” della propaganda populista: “interrompere il processo di integrazione europea e chiudere le frontiere agli immigrati, per meglio proteggere le persone più vulnerabili dalle sfide della globalizzazione”. Questo è il minimo comun denominatore delle pur diverse forme di populismo, o, se si preferisce, il suo weberiano “tipo ideale”.

Come è noto, diverse sono le motivazioni culturali di chi si schiera contro il populismo: si va dalle opzioni religiose (la pratica della pietas cristiana), a quelle laiche (l’umanismo di matrice illuministico-liberale e socialista); ma a molti pare evidente che esse debbono coniugarsi con un “realismo critico” quale base di concrete politiche sociali in grado di assicurare a chi si rifugia in Italia un’esistenza dignitosa e non, semplicemente, la salvezza dalla morte per guerra, con la condanna a una vita di mendicità, di precarietà o con il rischio di finire nelle maglie dello sfruttamento del lavoro illegale e/o della criminalità organizzata.

Libera circolazione dei lavoratori
L’UE è un’opzione per molti che non trovano lavoro in patria (il mercato del lavoro europeo è, patentemente, più vasto del mercato del lavoro in Italia!); ma perché questa opzione sia reale, occorre la libera circolazione dei lavoratori nell’intera UE. Chi nega quest’ultima condizione, lo sappia o no, propone la seguente alternativa: creare nuovi posti di lavoro in Italia o riportare le cose al tempo in cui l’Italia era una terra dalla quale si migrava verso l’estero. Il primo corno del dilemma è da escludersi: la disoccupazione crescente è strutturale, non congiunturale e aggravata dal progresso tecnologico che, tuttavia, non è omogeneo in tutta l’UE; il secondo è ugualmente da escludersi: è difficile trovare ragioni per dirsi nostalgici dei tempi in cui gli italiani emigravano all’estero. Opporsi alla libera circolazione dei lavoratori equivale a voler danneggiare soprattutto i più giovani sottraendo loro opportunità.

I populisti “offrono le risposte sbagliate a problemi reali, profondi, vissuti da milioni di persone” (p. XII); affermano di essere i protettori del cittadino contro le élites. E propongono di chiudere le frontiere a persone e prodotti, ignorando che potrebbe derivarne un “incrocio di protezionismi” che renderebbe più cari gli scambi di tutte le merci (lavoro compreso) e rischierebbe di incrementare proprio l’immigrazione clandestina. Che è un problema reale: una massa di lavoro non legale né tutelato dalla legge e non soggetto a contributi previdenziali e assistenziali. La regolarizzazione degli immigrati porterebbe alla “emersione di una base contributiva”.
Perdita di reddito e di sicurezza
Ma perché i populisti, in sette paesi europei (anche se non tutti membri dell’UE) sono andati al governo (Finlandia, Grecia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Svizzera e Ungheria) e, anche in Italia, sono il primo partito? La perdita di reddito e di sicurezza, la conseguente sfiducia nelle classi dirigenti hanno stimolato la crescita dei movimenti populisti: chi si trovava, trent’anni fa, fra il 25% e il 5% più ricco della popolazione mondiale, nel 1988, oggi si trova ad avere peggiorato la propria posizione – si tratta, però, per lo più di lavoratori poco qualificati. La grande recessione conseguente alla crisi finanziaria del 2008 ha aggravato gli effetti dei processi di globalizzazione e della progressiva automazione del lavoro su fasce non piccole della popolazione mondiale.
Tra le invenzioni populiste particolare presa ha la tesi secondo la quale che i processi migratori hanno tolto sovranità agli Stati in materia di Welfare. Non è vero: gli immigrati regolari versano ogni anno contributi pari a otto miliardi di euro con un saldo netto, per l’INPS, di cinque miliardi. In molti casi, inoltre, i contributi previdenziali degli immigrati non si traducono in pensioni: ogni anno, questi “contributi a fondo perduto” valgono trecento milioni di euro.
Come sconfiggere razionalmente la propaganda populista? Occorre innanzitutto mostrare nei fatti che le regole dello stato sociale si applicano anche a chi occupa posizioni di potere; in secondo luogo, è indispensabile realizzare strumenti che facilitino la ricollocazione professionale: occorre un Welfare di respiro europeo che sostituisca i vecchi sistemi di welfare nati per rispondere a crisi temporanee, ora che la crisi occupazionale è strutturale, non più congiunturale; inoltre, occorre ridimensionare i vitalizi concessi a deputati e senatori i quali godono di condizioni più vantaggiose di quelle che disciplinano i vitalizi degli altri lavoratori (cfr. p. 28); occorre, infine, potenziare l’istruzione universitaria: l’appartenenza a corpi intermedi che ne è stimolata riduce la probabilità che gli elettori cadano nell’inganno e, conseguentemente, votino per un partito populista.
È necessario, inoltre correggere evidenti storture: in Italia soltanto tre euro su cento erogati per prestazioni sociali vanno al dieci per cento più povero della popolazione, mentre spendiamo, attualmente, quasi cinque miliardi di euro in misure assistenziali destinate al quaranta per cento più povero della popolazione con redditi più alti.
Il populismo è l’ombra dei difetti della democrazia che vanno rimossi nell’interesse stesso della democrazia.

Scrive per noi

FRANCESCO INGRAVALLE
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