Alika Ogorchukwu
Una aggressione come “spettacolo”: i prassanti di Civitanova Marche riprendono l’omicidio di Alika Ogorchukwu senza intervenire. C’è qualche cosa che non funziona se un uomo di 32 anni compie un gesto simile. Il problema è la facilità dell’uccidere come dato emergente da numerosi (ormai) fatti di cronaca. Occorre una svolta innovativa nella creazione delle basi di un dialogo razionale e sociale.
Pomeriggio del 29 luglio, Civitanova Marche (Macerata): omicidio davanti ai passanti; un uomo di 32 anni ha ucciso Alika Ogorchukwu con una stampella che la vittima usava per fare il venditore ambulante (e per mantenere, così la famiglia). Alcuni hanno filmato con i telefonini l’accaduto. Nessuno è intervenuto.
Questo lo scarno resoconto delle agenzie di stampa.
È compito di altri ricostruire dinamica, motivazioni dell’omicidio.
“Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” (G. E. Débord, La società dello spettacolo in Commentari sulla società dello spettacolo, Firenze, Vallecchi, 1990, p. 85).
L’aggressione non è stata vissuta da chi era presente: è stata colta come “spettacolo”, come oggetto estetico, come oggetto di contemplazione da filmare e da condividere. E basta. Non è la realtà che chiede l’intervento, è la sua spettacolarizzazione che chiede la sua condivisione (“la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale”, Débord, Commentari, cit., p. 87). Lo spettatore si trova nella condizione del teoreta raffigurato da Lucrezio, nel De rerum natura: egli è al sicuro e nella condizione ideale per contemplare la tempesta. In questa situazione, lo spettatore è isolato dallo spettacolo: egli non interviene, come non interverrebbe in teatro a tentare di salvare i figli di Medea dall’uccisione, o come non interverrebbe al cinema a difendere la vittima di un’aggressione in un film western.
Il soggetto, che è agente per definizione, si trova confinato nella condizione del “non-agente” e quasi nella condizione che caratterizza il suo opposto, l’oggetto, nella sua passività.
Una situazione che vede una grande assenza: quella del pubblico potere. Quest’ultimo nasce, notoriamente, per dirimere controversie, liti, scontri, ed è, per eccellenza, soggetto terzo che deve mantenere i conflitti nell’ambito di regole condivise. Quali che siano le motivazioni del conflitto, la razionalità pubblica deve essere nelle condizioni di imporre la forma dialogica e di eliminare il ricorso alle armi (proprie o improprie). In questo episodio (non isolato) non è difficile vedere la crisi dello Stato sul piano di quella che è la sua funzione di base: garantire le regole per il confronto, per le controversie, nei termini fissati dalla legge che i rappresentanti della collettività hanno stabilito. La crisi della presenza dello Stato, come pubblico potere, nella vita quotidiana.
Si potrebbe dire: “ma chiunque poteva intervenire!” Non è così. Lo Stato moderno si fonda sulla differenziazione delle funzioni, soprattutto laddove occorra una specifica professionalità per svolgere una determinata funzione; non è vero che chiunque possa improvvisarsi agente di polizia.
Come nel caso di George Floyd
Si potrebbe obiettare: “Occorre una svolta culturale per modificare i rapporti inter-umani”. Questo è vero. Ma nel nostro sistema di formazione deve esserci qualche cosa che non funziona bene, se è possibile che un uomo di 32 anni compia un gesto come quello che abbiamo appreso dai media. Nel mini-filmato diffuso, l’aggressore si mette sopra la vittima come nel caso di George Floyd, come se volesse darsi visibilità. Indipendentemente da quello che possa esserci dietro, a lato, ecc., il problema è la facilità dell’uccidere come dato emergente da numerosi (ormai) fatti di cronaca. Di fronte a un intervento pubblico che non sembra esserci, si sviluppa, nel resto del corpo sociale, la tendenza passiva a subire la realtà come se fosse una fiction, una finzione. Noi, per usare un’espressione di matrice lontanamente heideggeriana, “lasciamo essere l’ente” e sembra che ci preoccupiamo unicamente di rendere noti gli eccessi di un “ente”, di celebrare i riti di esecrazione, pronti a ripeterli di fronte al prossimo ente che sarà ucciso, pronti persino a esecrare l’indifferenza degli astanti, ma, anche involontariamente, a farne spettacolo.
Il pubblico potere deve tornare ad essere centrale; si è “lasciato essere l’ente” a proposito delle organizzazioni criminali; si è lasciato essere l’ente a proposito della corruzione; si è lasciato essere l’ente a proposito del degrado ambientale; si sta lasciando essere l’ente anche di fronte al rischio, non troppo lontano, di una guerra di tutti contro tutti.
Siamo, come ha detto don Vinicio Albanese, a proposito dell’omicidio di Civitanova, al “degrado della legge”, cioè, nei termini di Thomas Hobbes, del regno di Behemot, i “demone del conflitto”. Ma l’alternativa è davvero Leviathan, il “demone dell’ordine”, oppure una svolta innovativa nella creazione delle basi di un dialogo razionale e sociale?
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