Skip to main content

Disuguaglianza e felicità collettiva, due termini inconciliabili

| TIZIANA CARENA

Tempo di lettura: 6 minuti

Disuguaglianza e felicità collettiva, due termini inconciliabili

Ai margini dell’ambiente. Parliamo di classi sociali e di uguaglianza/disuguaglianza sociale. La società globale e locale è ben poco solidale, le associazioni di volontariato non sono in grado di fronteggiare, da sole, la povertà crescente e, quindi, di creare, da sole, spazi estesi di solidarietà sociale e cresce la frammentazione sociale. Ma la felicità o è collettiva o non è: non può essere felice chi è in preda al bisogno. Libri e convegni ne hanno discusso recentemente.

di Tiziana C. Carena

Conviene partire da alcuni dati: “l’ampiezza delle disuguaglianze socio-economiche sta oggi crescendo in tutti i paesi (…) nelle economie avanzate le disparità di reddito stanno tornando ai livelli di inizio Novecento ma le disuguaglianze restano estremamente alte anche a livello globale, dato che, nonostante l’elevata crescita dei grandi paesi in via di sviluppo – Cina, India, Brasile, le nazioni occidentali continuano a detenere una ricchezza sproporzionata rispetto al resto del mondo.” (C. Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza, Roma-Bari, 2019, p. 5). La ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale ha superato dal 2015 quella del restante 99%. Ne consegue una sempre più ridotta mobilità sociale, soprattutto intergenerazionale: “i ricchi sono figli di ricchi e i poveri sono figli di poveri” (C. Volpato, Le radici, cit., p. 6).
In Italia l’1% possiede il 23,4% della ricchezza nazionale. Sia a livello globale, sia a livello nazionale, assistiamo al procedere della frammentazione sociale prodotta dall’accresciuto potere del capitale sul lavoro, dalla formazione di una nuova aristocrazia del denaro, dalla riduzione dell’azione ridistributrice del reddito da parte dello Stato e dalla concorrenza tra i lavoratori.
Per l’Italia, in particolare, il debito pubblico si traduce, attualmente in un debito personale in ragione di 38.000-37.000 euro a persona (Fonte: Banca d’Italia). Abbiamo il debito pubblico più alto della storia del nostro paese e anche rispetto agli altri paesi europei. Una società globale e locale ben poco solidale; parlare di “solidarietà”, oggi, ha un sapore amaro, quasi di fantasia perduta; i dati che ci vengono presentati solitamente in merito alla solidarietà non trovano aderenza nella routine del quotidiano; le associazioni di volontariato non sono in grado di fronteggiare, da sole, la povertà crescente e, quindi, di creare, da sole, spazi estesi di solidarietà sociale.

Il nuovo volto della società di classe

Con questo quadro sotto gli occhi, non si può essere d’accordo con chi sostiene che le classi sociali non esistano più: se il mezzo di produzione predominante è il denaro (quell’astratto su cui ha scritto saggi memorabili il filosofo tedesco Georg Simmel), la ricchezza immobiliare, se il lavoro dipende sempre di più dalla forza del credito, se il mondo degli investitori di capitale si è a tal punto assoggettato il lavoro da renderlo “flessibile” (erodendo margini sempre più ampi di Welfare quello stato di benessere, ormai centenario e, pare, non più autosufficiente…), occorre ammettere che la società di classe di cui parlava Marx alla metà del XIX secolo non è tramontata, ma ha cambiato modo di apparire.
Che la società sia divisa in classi è un problema. Le carte delle organizzazioni internazionali, Dall’Onu alla Ue, ci parlano di uguaglianza e di libertà, rinviandoci a un universo concettuale che è quello dell’Illuminismo (soprattutto kantiano). La realtà della distribuzione della ricchezza globale ci parla, invece, di disuguaglianza.
Si può essere diseguali e liberi? Prendiamo le mosse da Kant. La libertà è un dato di fatto della “pura ragione”, secondo il filosofo prussiano, e ogni uomo è libero per natura. Dunque, ogni uomo ha la stessa dignità di ogni altro ed è uguale moralmente a ogni altro. Ma come può essere uguale, concretamente, materialmente, la dignità di chi vive nel lusso e quella di chi manca anche del necessario per vivere? Non lo può essere. Lo dice la dichiarazione di indipendenza stessa delle ex-colonie britanniche del Nord-America: come ricorda il filosofo austriaco Otto Neurath nel 1942, vita, libertà e perseguimento della felicità sono riconosciuti come “diritti inalienabili” (O. Neurath, Pianificazione internazionale per la libertà in Id., L’utopia realmente possibile, Milano, Mimesis, 2016, p. 44). Felice non può essere chi è in preda al bisogno.
Oggi, a più di settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero degli esseri umani in preda al bisogno è aumentato, ed è aumentata la disuguaglianza sociale, come mostrano i dati percentuali sopra richiamati. Sia sul piano globale, sia sul piano dei singoli Stati nazionali, manca un efficace processo di redistribuzione della ricchezza sociale e tale mancanza è strettamente legata al modo di produrre la ricchezza sociale stessa, cioè all’economia capitalistica.

Cottarelli e Bellofiore, due punti di vista

Il 30 marzo si sono tenuti a Torino due incontri che hanno a che fare con questo problema: la conferenza di Carlo Cottarelli al Teatro Carignano, nell’ambito della “Biennale della democrazia” (Debito pubblico: perché è un problema e come ridurlo) e la conferenza di Riccardo Bellofiore (Karl Marx: “interpretazione” o “ricostruzione”?) presso Il Centro “Gobetti” (Bellofiore ha partecipato anche, nella mattinata del 30 marzo stesso, al Convitto “Umberto I”, con una relazione intitolata Crisi economica, trasformazioni produttive e lotta di classe).
I due incontri, apparentemente dedicati a problemi assai diversi, hanno come centro la “pubblica felicità” o, per usare una celebre espressione del filosofo inglese del primo Ottocento Jeremy Bentham “la maggiore felicità per il maggior numero.”
Carlo Cottarelli, già del dipartimento Affari fiscali del FMI e appartenente all’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, ha illustrato i motivi per cui il debito pubblico elevato è un male; illustrazione utile, se si tiene conto che la stagione delle riforme sociali in Italia si è avuta con un elevato debito pubblico. Cottarelli ha individuato tre rischi attuali:
1. più si alza il debito pubblico e più è probabile che ci sia una crisi di fiducia negli investitori e che per lo Stato sia sempre più difficile vendere i BOT, i BTP (con aumento dello spread);
2. più si alza il debito pubblico e maggiore è il rallentamento della crescita del reddito del paese;
3. più si alza il debito pubblico e minori sono le risorse di cui lo Stato può servirsi per aiutare l’economia. Pertanto, il problema è come ridurre il debito pubblico.
La soluzione è, secondo Cottarelli, ridurre i costi della burocrazia, lottare decisamente contro l’evasione fiscale e limitare gli sprechi della spesa pubblica. Ma per fare questo occorre un pubblico potere in grado di attuare riforme. Però è dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso che assistiamo a una crescente crisi fiscale dello Stato, correlativamente alla sempre più facile e rapida circolazione dei capitali, oltre all’aumento percentuale dell’evasione fiscale; le società occidentali, inoltre, si sono dedicate sempre di più alla gestione della complessità e sempre meno alla riduzione della complessità: gestire la complessità richiede non minore burocrazia, ma maggiore burocrazia proprio per tutelare un numero sempre crescente di diritti di sempre più numerosi e variegati soggetti sociali; quanto agli sprechi della spesa pubblica, occorre di certo limitarli o eliminarli; ma questo non può essere fatto senza adeguati controlli che richiedono non meno burocrazia, ma più burocrazia. Certo: è augurabile che si tratti di una burocrazia sana ed efficiente. Abbiamo di fronte lo strumentario ideale per realizzare il maggior benessere per il maggior numero, per ridurre le disuguaglianze.

 

Il credito volano dell’economia

Ma si può guardare più a fondo nel problema delle politiche economiche, nella natura stessa della nostra economia. Ed è quanto fa Riccardo Bellofiore, economista dell’università degli studi di Bergamo, ripartendo da Marx, alla luce di un motto ben preciso: “come Marx, dopo Marx”. Secondo l’economista, Marx, il teorico delle classi sociali, non è un “classico”, se si intende come “classico” un pensatore esclusivamente ancorato al proprio tempo; Marx è un critico dell’economia politica. Per chi scrive, invece, un “classico” del pensiero è tale perché il suo impianto teorico non tramonta: Marx è eminentemente un “sociologo” del lavoro; e le condizioni del lavoro salariato si sono modificate meno delle tecnologie di produzione, l’economia capitalistica è rimasta economia della disuguaglianza sociale tra classi; di qui l’attualità di Marx.
Secondo Bellofiore, occorre ripartire dalla lettura dei primi tre capitoli del Capitale per cogliere come il capitale assoggetti a sé tutti gli elementi che compongono il lavoro vivo, obbligando, di fatto, i soggetti, liberi e uguali, a un lavoro forzato, il lavoro salariato, e configurando la realtà dello sfruttamento (capitolo V).
Il nucleo del capitale, oggi, in misura non minore, anzi maggiore rispetto ai tempi di Marx, è costituito dal credito: nessuna impresa può muoversi senza prestiti da parte delle banche, come già rilevato dall’economista Augusto Graziani. In questo modo, l’astratto (il denaro) ha conquistato il concreto (il lavoro vivo) che utilizza come strumento di propria valorizzazione.
L’uomo, quindi, è strumento di un complesso di dispositivi astratti. Come ha scritto Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844: “Il lavoro è esterno al lavoratore, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro.”(tr. it. di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1968, p. 75).

 

Una logica del profitto indifferente sia alla felicità sia all’ambiente

La logica del profitto che caratterizza l’economia capitalistica la rende obiettivamente indifferente non soltanto al livello di felicità dei lavoratori, ma del tutto incurante nei confronti dell’ambiente considerato come fonte di profitto, più che come qualità vitale da tutelare e da tramandare. Ambiente che, proprio in questo periodo, a partire dalla perorazione della quindicenne Greta, ha avuto una “coda” mediatica straordinaria con effetti sociali non indifferenti (pensiamo alla manifestazione del 23 marzo in nome dell’ambiente); un tam-tam virtuale che vivifica sempre di più un movimento globale in difesa dell’ambiente, e che non è possibile disgiungere, in prospettiva, da una critica dell’economia politica.
La difesa del pianeta Terra, nelle sue ragioni ‘marxiane’, ha ragione d’essere perché la responsabilità di un modello economico ben preciso nel dissesto ambientale è indubbia.
La crisi mondiale che ha come focus l’ambiente è la crisi di un intero, secolare, modello di sviluppo della produzione della ricchezza. E proprio al culmine di un periodo storico in cui importanti organizzazioni internazionali hanno fatto proprio il progetto illuminista della pubblica felicità nelle loro carte, la realtà parla il linguaggio di una crescente disuguaglianza sociale, di una crescente minaccia alla libertà della maggioranza degli esseri umani.
Ripensiamo a quello che scrive nell’Autobiografia John Stuart Mill: “Sono felici soltanto coloro che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell’umanità, persino qualche arte o occupazione perseguiti non come mezzi, ma come fini ideali in sé stessi.” Mill, Marx e Neurath ci suggeriscono nei loro scritti di considerare che la felicità o è collettiva o non è.

Scrive per noi

TIZIANA CARENA
Tiziana C. Carena, insegnante di Filosofia, Scienze umane, Psicologia generale e Comunicazione, Master di primo livello in Didattica e psicopedagogia degli allievi con disturbi dello spettro autistico, Perfezionamento in Criminalistica medico-legale. È iscritta dal 1993 all'Ordine dei Giornalisti del Piemonte. Si occupa di argomenti a carattere sociologico. Ha pubblicato per Mimesis, Aracne, Giuffrè, Hasta Edizioni, Brenner, Accademia dei Lincei, Claudiana.