Jean Rostand, un approccio filosofico nella divulgazione della biologia
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Morire, è passare dalla parte del più forte. Pensieri di un biologo
Jean Rostand, introduzione di Giovanni Monastra
Iduna
Milano, 2021
Pag. 170
Per la quarta volta, nell’arco di cinquantadue anni, è riproposta quest’opera di Jean Rostand. Pubblicata in edizione originale nel 1954, appare in versione italiana, a cura di Silvana Quarantotto, nel 1968 (Milano, Edizioni del Borghese, seconda edizione 1969), viene ristampata nel 1984 (Roma, Ciarrapico) con prefazione del biologo e docente di Genetica all’Università di Perugia Giuseppe Sermonti (1925-2018) e, ora, è riproposta da Iduna (Milano), con introduzione di Giovanni Monastra, ricercatore in ambito neurofarmacologico e immunofarmacologico.
Nato a Parigi il 30 ottobre 1894, Jean Rostand è figlio del drammaturgo Edmond Rostand (1868-1918), il celebre autore di Cyrano de Bergerac (1897) e della poetessa Rosemonde Gérard (1871-1953) nota, tra l’altro, per la raccolta L’arc-en-ciel (1926); ottiene la licence in Scienze all’Università di Parigi e inizia il proprio percorso di biologo.
Come osserva Monastra nella sua introduzione, “le grandi ricchezze di famiglia gli permisero di essere completamente indipendente dalle strutture universitarie […], non dovette mai competere nel mondo universitario e della ricerca” (p. I). Rostand opera nella fortunata condizione che Aristotele denominava “vita teoretica” ed è, per dirla con espressione di Arthur Schopenhauer, pienamente “soggetto teoretico”. Non per questo egli non si impegna nella vita sociale. È militante pacifista nell’epoca dell’”equilibrio del terrore atomico”, contribuisce, con Simone De Beauvoir, Christiane Rochefort e altri a creare il movimento femminista ”Choisir la cause des femmes”. Nel 1972 si schiera a favore dell’aborto.
Il suo maggiore impegno, oltre alla ricerca condotta sulla biologia degli anfibi, sulla partenogenesi, sull’azione del freddo sulle uova, sull’ereditarietà, all’interno del suo piccolo laboratorio personale di Ville-D’Avray, fu la divulgazione della biologia – per la quale fu insignito del premio Kalinga per la divulgazione scientifica (istituito nel 1952 dall’UNESCO). Uno sguardo al Catalogo OPAC SBN basta per avere un’idea del peso della sua opera di divulgatore. Ben quindici libri, dal 1936, sono ospitati in numerose biblioteche italiane; tra essi vanno ricordati Piccola storia della biologia (Torino, Einaudi, 1949) L’uomo: introduzione allo studio della biologia umana (Roma, Casini, 1950), Lazzaro Spallanzani e le origini della biologia scientifica (Torino, Einaudi, 1959; seconda edizione, Torino, Einaudi, 1978), L’uomo artificiale (Torino, Einaudi, 1959, ristampa Milano, Il Saggiatore, 1971), Biologia e maternità (Bari, Laterza, 1968); I miracoli della biologia (Milano, Rizzoli, 1970).
Non è questa intensa attività di divulgazione a fare di Morire, è passare dalla parte del più forte, è la sua capacità di guardare alla biologia “dall’esterno”, con occhio filosofico, uno sguardo che rivela la propria acutezza in queste parole: “La scienza ha fatto di noi degli dèi prima che noi meritassimo di essere degli uomini.” Che cosa significa “essere degli uomini”? Significa riflettere sul nostro “essere-nel-mondo” per usare la terminologia di Heidegger, il quale, dalla sua prospettiva, guardava proprio a quell’essere nel mondo che è la tecno-scienza, di cui fanno parte le scienze della vita.
Quale significato hanno le scienze della vita per l’uomo come unico soggetto naturale capace di riflettere su sé stesso in rapporto al proprio ambiente e di trasporre la riflessione in quel sistema di segni che è il linguaggio?
Un riposto accenno freudiano
C’è nel nuovo titolo scelto per questa quarta edizione italiana dei Pensieri di un biologo un riposto accenno freudiano: la tendenza dell’organico a ritornare all’organico denominata da Freud “pulsione di morte”.
Come per Freud, anche per Rostand l’angolo visuale della riflessione sulle scienze della vita deve essere realistico: “Prima di sognare, bisogna sapere” (p. 9). Tranne che nelle visioni utopiche considerate come modelli di ingegneria sociale da Otto Neurath (1882-1945), il sogno, proprio perché emanazione di desideri profondi, inconsapevoli, come rilevato da Freud, non è una buona guida nella vita reale, tanto fisiologica, quanto sociale e politica. La conoscenza va anteposta al desiderio ed è l’unica guida per separare i desideri che seguono la “pulsione di morte” da quelli che seguono la “pulsione di vita” (che Freud denominava “Eros”).
Rostand afferma che, geneticamente, “ogni uomo ha trilioni di fratelli possibili”, ma ogni individuo “per la sua costituzione ereditaria, possiede una originalità di principio” (p. 10). Sicché, biologicamente, “il feroce teorico dell’Unico aveva ragione”. Il “feroce teorico dell’Unico” è il filosofo tedesco Max Stirner (1806-1856), autore del volume intitolato L’Unico e la sua proprietà (1845), nel quale i presupposti dell’individualismo liberale sono spinti all’estremo (come notarono già Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca del 1846), verso l’anarchismo individualistico, la glorificazione filosofica dell’unico, irripetibile, individuo. Per Rostand Stirner ha ragione, nella sua perorazione dell’“unico”, anche da un punto di vista più radicale. Il singolo irripetibile, unico è così presentato dal filosofo tedesco: “Se io ripongo la mia causa in ME STESSO, L’UNICO, essa riposa sul suo creatore effimero e perituro che da sé stesso si consuma” (L’Unico, trad. di Pino Turco Liveri, Roma, Ennesse, 1970, vol. 2). “Effimero” e “perituro”: casuale.
E Rostand aggiunge: “Il germe da cui ha origine l’individuo umano proviene da un doppio caso fortuito. È il caso che ha deciso quale parte di ereditarietà resisterà nell’ovulo quando espelle, maturando, i suoi ventiquattro cromosomi. È ancora il caso che ha deciso quale degli elementi fecondatori penetrerà nell’ovulo” (p. 11). E si rievoca la parola di Nietzsche: “In tutta la storia dell’umanità, non si può riscontrare né uno scopo né una segreta razionalità, né un istinto, ma caso, caso, caso – e alcuni casi favorevoli (Aurora, tr. it. Milano, Adelphi, 1964, frammenti dell’invero 1879-1880, I (63)), le parole di Jacques Monod (190-1976) in Il caso e la necessità (1969), tr. it. Milano, Mondadori, 2017, sugli sforzi dell’umanità di negare disperatamente la propria contingenza che si riafferma, invece, sotto lo sguardo oggettivo della scienza.
Se questo è vero, ogni etica e ogni giurisprudenza fondata sulla responsabilità è falsa; e il massimo che si possa fare è attenuare, oppure sopprimere le disuguaglianze sociali che rendono più gravi le casuali disuguaglianze naturali. Nella piena consapevolezza che “la civiltà esprime i cromosomi mani, ma non si imprime in essi” (p. 27); appartiene alla civiltà umana “di contrastare sempre più, tanto con i poteri della scienza, quanto con lo spirito di fraternità, il gioco crudele della selezione naturale” (p. 30). Così, la civiltà inventa sia la tutela dell’ambiente, sia le pratiche sociali inclusive, potenzia la medicina e la ricerca farmaceutica che introducono una razionalità umana nel gioco del caso e nelle sue conseguenze necessarie. Il rispetto per l’uomo è rispetto per la sua sofferenza: l’uomo, infatti, è l’animale “che sa che deve morire” (p. 69), che sa che le sue sofferenze non derivano da alcun “ordine” del mondo e, quindi, non hanno “senso”, che trasforma fantasticamente il “fatto” (“il morire”) in concetto (“la morte”) o, addirittura, in “persona” (“la Morte”). E, solo com’è, nel cosmo e nella dinamica delle forze naturali, l’uomo “si rifiuta di essere soltanto un animale” e costruisce la cultura.
Il quadro della condizione umana è inquietante, per il biologo, ancora di più che per il non-biologo; perché, dallo sguardo del biologo è evidente che “quello che vi è di più vivo nell’universo è la sofferenza, poiché è ciò di cui è più difficile immaginare la fine” (p. 131). Quindi, “vivere è giocare ai quattro cantoni con le proprie angosce” (p.170).
Rostand ha cercato di “metterci in guardia dai pericoli di una scienza antiumana, prometeica” (G. Monatra, Introduzione, p. VIII) e già nella prefazione alla ristampa del 1984 G. Sermonti aveva notato che “Il messaggio di Rostand è terribile, impronunciabile” (p. IV). Il messaggio di Rostand è meramente realistico: il realismo è l’unica strada conoscitiva che ci permetta di vivere nella natura, con le nostre specificità umane (la cultura) e le nostre progettualità, senza distruggerla e, quindi, senza distruggerci.
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- FRANCESCO INGRAVALLE
- Francesco Ingravalle, già ricercatore di Storia delle istituzioni politiche presso l'Università del Piemonte Orientale, saggista e storico del pensiero e delle istituzioni politiche.
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