Le voci della Terra. Tra melodie e stupore per riscoprirsi connessi alla natura: il linguaggio musicale per la sensibilizzazione alla crisi climatica

Con il fine di immergerci in un viaggio tra i suoni della natura, Earthphonia non vuole essere un album che semplicemente riproduce i rumori dell’ambiente: Max Casacci funge da traduttore, ruolo che gli permette di creare un dialogo tra la natura e il pubblico. Ha tradotto ciò che il nostro ecosistema aveva da dire, cosicché potesse farsi capire da chi lo ascoltava. Così facendo, l’artista crea un ponte tra gli esseri umani e la natura: crea un nuovo linguaggio, crea stupore. La scienza dialoga con l’arte, l’arte con la scienza, e insieme queste due discipline dialogano con il pubblico. La musica così si fa portavoce del nostro ecosistema, dando inizio alla sperimentazione di nuovi linguaggi per trasmettere l’urgenza di questa crisi climatica.

Come ti è venuta l’idea di questo progetto? Come l’hai condotto?

Io mi occupo di trasformare i rumori in musica da ormai undici anni. Tutto parte da un’esigenza di esplorazione sonora, dalla necessità di interfacciarmi con il mondo attraverso la musica: in questi anni, per la maggior parte del tempo ho esplorato la musica del mondo a me più familiare, cioè l’ambiente urbano. Infatti, ho cominciato traducendo in musica una fornace di murano, progetto che mi era stato commissionato nell’ambito della Biennale di Venezia in seno ad un’esposizione di arte contemporanea in vetro che vedeva reclutati artisti importantissimi della scena internazionale. Successivamente ho proseguito con un album, “The City”, in cui ho reso i rumori di Torino una sorta di corpo ritmico a sostegno degli strumenti dei più importanti jazzisti europei che vivono a Torino; questo per la realizzazione di uno spettacolo sul palco del Torino Jazz Festival. Progressivamente ho cominciato ad allontanare l’utilizzo degli strumenti, a concentrarmi sulla traduzione in musica di tutto ciò che riuscivo ad estrarre dai rumori e dagli ambienti sonori; così sono rimasti solo i rumori trasformati in musica.

Dai suoni urbani ai suoni naturali per la valorizzazione del territorio

Per caso quattro anni fa a Gozo, isola dell’arcipelago maltese, sono venuto a conoscenza del fatto che in un luogo remoto non segnalato fossero presenti delle rocce appoggiate su una scogliera a strapiombo sul mare: si dice che nell’antichità questo luogo venisse utilizzato per rituali sonori. Lì mi sono trovato a percuotere le pietre cercando di capire quali fossero quelle sonore. Ero insieme a Luca Saini, musicoterapeuta, artista visivo e regista. Al termine della giornata torniamo a casa, e lì avviene qualcosa che segnerà la mia vita musicale: mi accorgo che i file sonori che avevamo registrato (con l’accortezza di sincronizzare ciò che stavamo facendo attraverso un metronomo), quando allineati davano degli intervalli armonici molto definiti, cioè le pietre erano inspiegabilmente intonate tra di loro. Da questa esperienza realizzo un brano musicale e Luca realizza un video che viene postato su YouTube.

Un anno dopo, Michelangelo Pistoletto, dopo aver visto quel video, decide di commissionarmi un brano da realizzare con i rumori del torrente di Biella, perché ha in mente un’esposizione d’arte legata alle terme, alla cura dell’acqua come elemento simbolico. Ma Pistoletto non voleva dei semplici rumori, voleva una musica emozionante. Scopro che intorno alle sorgenti c’erano degli antichi siti spirituali, successivamente trasformati nelle forme della cristianità; infatti oggi ci sono delle cappelle votive e il Santuario della Madonna Nera. È una sorta di transizione tra luogo di rito cattolico e qualcosa di precedente. Questo mi suggerisce di ascoltare l’acqua, da cui poi estrarrò un coro di musica sacra. Successivamente mi arrivarono molte altre richieste: dall’ente Regionale del Delta del Po per tradurre in musica quella zona, all’onlus Worldrise per realizzare un brano per supportare le loro attività con i rumori dell’oceano.

Tutto questo avvenne durante il lockdown, periodo in cui mi accorgo che la città è sospesa, è morta, laddove invece il lavoro a contatto con i suoni della natura mi trasmette un’urgenza: ci siamo chiusi in casa mentre suonava un campanello di allarme relativo allo stato di salute del pianeta; allarme che non si poteva trascurare, anche perché nonostante ci fossimo chiusi in casa quell’allarme non si era di certo fermato. Quindi, iniziare a provare con la musica una direzione che potesse essere di supporto a tutte le mobilitazioni in favore della battaglia contro i cambiamenti climatici mi sembrava un’ottima cosa. Nella pausa di riflessione di questo lockdown si cercava comunemente di immaginare se il mondo che avremmo trovato alla fine di questa cosa che neanche sapevamo come interpretare potesse essere rivisto e migliorato. Tutti questi fattori mi hanno dato una forte ispirazione per andare verso la realizzazione di un intero album senza strumenti musicali; questo per cercare di individuare un’urgenza musicale in supporto di un tema ambientale.

È sempre più urgente la necessità di trovare nuovi linguaggi, linguaggi diversi da quello scientifico che spesso non è compreso o accettato da tutti. Vista questa urgenza, e visto che attraverso l’espressione artistica è più semplice creare ponti, ci sono altri artisti che stanno andando in questa direzione? Trovi che sia un buon metodo?

Esistono delle campagne come il “No Music on a Dead Planet” che fa anche riferimento ad un’etichetta discografica che sta individuando nuovi materiali per i dischi, non ricavandoli dal vinile ma da altri materiali ecosostenibili; quindi, sicuramente c’è un coinvolgimento da parte del mondo musicale. Tuttavia, analizzando le manifestazioni a cui ho partecipato, dai Fridays for Future agli Extinction Rebellion, ho trovato che manchi una musica diretta: non si è ancora saldato un rapporto tra i ragazzi e la musica che identifica una mobilitazione, cosa che è sempre avvenuta nel passato. Bisognerebbe lavorare su questo, perché per la natura è importante la mobilitazione, soprattutto quella dei Fridays for Future che hanno una loro ritualità, visto che hanno una cadenza settimanale.

“La scienza ti dà un dato che però non passa attraverso un canale emotivo, quindi è importante far passare questi temi delle mobilitazioni attraverso canali emotivi. Quindi credo ci sia una fusione da compiere con l’universo della musica”.

Musica per la scienza

Il progetto Deproducers nasce da un’esigenza di esplorazione sonora, esigenza che ha aperto le porte alla scienza. Contattando Fabio Peri, uno dei fondatori dell’Associazione dei Planetari Italiani (Planit), abbiamo provato ad abbinare la musica all’astrofisica, così come già fatto con alcuni tentativi precedenti. Già la musica con la botanica nel secondo album era qualcosa di inesplorato. Il terzo step è stato quello più difficile, perché abbiamo cercato di abbinare la musica alla genetica fino ad arrivare alle soglie della malattia; questo è stato sicuramente un passaggio più arduo. Queste esperienze hanno cominciato a rivelare una serie di aspetti positivi, come la divulgazione scientifica tramite un canale emotivo, la ridefinizione del ruolo del musicista, e la demolizione della figura iconica del cantante che fa un passo indietro e manda avanti ad esporsi uno scienziato.

Nel libro, Mario Tozzi fa parlare in prima persona la natura. Tu invece hai lasciato che parlasse da sé e, con l’aiuto della tecnologia, hai tradotto ciò che l’ecosistema cercava di comunicare in qualcosa che sai che le persone potrebbero comprendere. Ma non ti sei limitato ad utilizzare solo i suoni “comodi” da ascoltare, quelli più piacevoli; ad esempio, hai anche inserito il suono di un ghiacciaio che si rompe, elemento che ci lancia un chiaro SOS. Perché hai deciso di inserire questo elemento?

Esiste una sorta di consuetudine nell’immaginare una natura domestica, di immaginarla come qualcosa di rilassante, armonioso e pacificatore, quando in realtà la natura presenta molti altri aspetti: i vulcani possono essere distruzione, i fiumi possono diventare uno strumento di morte a causa di una cattiva gestione del territorio, e gli oceani che si alzano ci ricordano, come se fossero strumenti di misurazione, i danni che stiamo infliggendo alla nostra casa e quanto ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno. Ecco, volevo che questi elementi fossero presenti in una sorta di viaggio all’interno della natura del pianeta.

Quando ho pensato di intonare il fiume con quello che è il suono che ne rappresenta il flusso, ho passato le giornate andando avanti e indietro con il dosaggio delle frequenze basse. Un suono ricco di frequenze basse avrebbe sortito un effetto ansiogeno, perché la memoria biologica ci ricorda che i suoni bassi preludono qualcosa di minaccioso. Al contrario, sottraendo troppe frequenze basse il fiume sarebbe risultato troppo rilassante. Il punto di equilibrio l’ho trovato dopo un paio di giorni di ricerca: volevo che fosse presente una nota di minaccia, cioè quella presente nella nostra percezione dei corsi d’acqua negli ultimi dieci anni. Sono contento di aver indugiato su questo dettaglio, perché poco dopo mi è arrivata una foto di Biella che raffigurava la palazzina che conteneva l’opera sonora del torrente Cervo spazzata via dal torrente medesimo, portandosi via tutti i suoi suoni.

È stato proprio nelle mie intenzioni descrivere un’idea di relazione tra gli esseri umani e la natura legata al tempo presente, pur utilizzando degli strumenti di partenza che non hanno elementi di tempo. Contemporaneamente, in questa scelta dell’ultimo quadro del brano sull’oceano in cui c’è la rottura di un ghiacciaio, volevo ricordare qualcosa, cioè l’attenzione che dobbiamo prestare nel rapporto con la natura, perché la natura non danneggia se stessa, siamo noi che compromettiamo le nostre stesse condizioni di vita all’interno di questo ecosistema.

Lasciarsi trasportare dai suoni della natura

Invece, per quanto riguarda i suoni della montagna, hai deciso di inserire l’elemento umano. La nostra cultura ci ha insegnato a distaccarci dalla natura, quando in realtà noi facciamo parte di questo stesso ecosistema che stiamo distruggendo, e gli elementi di distruzione che hai inserito sono dovuti proprio ad un elemento (gli esseri umani) che fa parte di questo stesso mondo. Voleva essere una provocazione?

La presenza umana nel brano delle montagne nasce perché suggerita da Carlo Petrini, editore del libro che contiene l’album, che riteneva dovessero essere inserite le terre alte. Quindi contattiamo i coltivatori e i produttori della rete di Terra Madre sparsi in tutto il mondo e gli chiediamo di registrare gli ambienti delle terre alte. I suoni che sono arrivati – dagli Appennini all’Azerbaijan – hanno scardinato ciò che pensavo potesse essere la fisionomia del brano: lo immaginavo un brano ambient rispettoso dei silenzi della montagna. Invece, quel suono del mercato andino presente nel brano è un suono molto colorato. Il fatto di essere entrato in relazione con i suoni delle terre alte di tutto il mondo mi ha portato a rivedere ciò che è il nostro imprinting naturale subalpino. Così mi sono lasciato trasportare dai suoni di montagna, della transumanza che penso sia qualcosa di frastornante, quasi a livello ipnotico. Quindi la montagna aveva perso la necessità di essere silenziosa. Alla fine, mi è venuto in mente questo: è l’unico brano che contiene la presenza dell’uomo, però la montagna come ecosistema è l’unico che necessita la presenza umana perché lì crea equilibrio, ad esempio con la manutenzione delle acque e delle foreste. Quindi penso che far riaffiorare la presenza umana alla fine di tutto il percorso sia stata la cosa giusta da fare, perché facciamo appunto parte del suono della natura e nell’album appariamo dove tendenzialmente riusciamo a creare armonia ed equilibrio.

Nel mare dove succedono cose incredibili

Quando hai presentato il progetto al “Road to Cop26” (la simulazione della conferenza Onu sul clima) avevi davanti un pubblico consapevole dell’emergenza climatica, quindi un pubblico sensibile ed informato. Hai mai avuto a che fare con un pubblico più vario, un pubblico meno vicino a queste tematiche? Che reazione hanno avuto?

Earthphonia non vuole essere una “call to action”, perché la musica non dovrebbe essere così, ma dovrebbe avvicinarti ed incoraggiarti nel momento in cui fai attivismo. Ma non può espletare una reazione precisa: deve mantenere sempre un margine di fuga, altrimenti perderebbe tutta la sua complessità. Lo strumento che sicuramente aggancia l’esperienza di Earthphonia alle esigenze pratiche – perché adesso occorre davvero prendere delle decisioni ed essere molto determinati collettivamente – è lo stupore. Nel senso che io non ti sto raccontando di accendere meno luci o di fare scelte quotidiane più ecosostenibili, ma ti sto raccontando che nel mare dove succedono cose incredibili (come, ad esempio, i pesci che cantano in coro o i cetacei che comunicano da una parte all’altra dell’oceano grazie ad onde sonore potentissime) avviene anche una produzione di ossigeno che rappresenta il 50% dei respiri che facciamo, e che a causa dell’acidificazione delle acque questa cosa rischia di non succedere più. In qualche modo entro dentro l’argomento attraverso un canale più narrativo, attraverso la curiosità e lo stupore che tendono ad avvicinare molto l’ecosistema di cui stiamo parlando. Questo tipo di gioco è stato ancora più potenziato dalla narrazione di Mario Tozzi che fa parlare l’ecosistema in prima persona.

Non so dirti però se questo progetto nasce per ottenere un risultato, ma sicuramente nasce per sperimentare un linguaggio. Io non ho costruito questo per convincerti a fare qualcosa; ho realizzato Earthphonia perché è figlia delle mie convinzioni, e ho messo tutto quello che sento, desidero e che vorrei che succedesse insieme a tutto ciò che mi ha stupito e coinvolto. Il mio compito non è impartire una lezione morale. Questo progetto è un complemento rispetto a quello che si sta attivando per ottenere dei risultati, e la musica è sicuramente una fonte di incoraggiamento: qualcosa che dà costanza all’azione, la rende più duratura e non solo il frutto di una moda del momento. Ha a che fare più con la natura dell’artista in questione che non con la volontà predeterminata di raggiungere quel tipo di risultato. Quando si va incontro ad un’esplorazione non sai che risultato otterrai; segui la tua natura e fai convergere la tua sensibilità rispetto al mondo a cui ti stai relazionando.

“In questo caso sono due le coordinate: una è proprio questa coordinata senza tempo del riferirsi ad una musica che ha nella sua tavolozza espressiva dei suoni che non hanno tempo e mai lo avranno, e l’altra è l’urgenza di rapportarci con l’ambiente in cui stiamo vivendo in un certo modo, e questo a causa di determinate circostanze”.

 

Le tracce audio sono disponibili ai seguenti link:

  1. DELTA (Sounds from air)

  2. WATERMEMORIES (Sounds from water)

  3. TA’CENC (Sounds from stones)

  4. OCEANBREATH (Sounds from the sea)

  5. ROOTS WIDE WEB (Sounds from plants)

  6. STROMBOLIAN ACTIVITY (Sounds from volcanos)

  7. THE QUEEN (Sounds from bees)

  8. TERRE ALTE (Sounds from the mountains)

Scrive per noi

Federica Benedetti
Ha studiato arte presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e archeologia medievale presso la University of York in Inghilterra. È attualmente studentessa della magistrale di Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato anche per Lavoro Culturale e la rivista pH.

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Ha studiato arte presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e archeologia medievale presso la University of York in Inghilterra. È attualmente studentessa della magistrale di Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato anche per Lavoro Culturale e la rivista pH.

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