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Se solo li guardassimo negli occhi. Disfare i confini tra umano e non umano

| Federica Benedetti

Tempo di lettura: 4 minuti

Se solo li guardassimo negli occhi. Disfare i confini tra umano e non umano

La Società Italiana delle Letterate dedica tre giorni alla poesia come cura del mondo, come palestra per la cura degli altri e come espressione dei legami tra umani e non umani.

Dal 18 al 20 marzo 2022, presso la Biblioteca Consorziale di Viterbo, si è tenuto il convegno “Ecopoetiche/Ecopolitiche. Poesia come cura del mondo” organizzato dalla Società Italiana delle Letterate. Il convegno dà voce alle poetesse e ai poeti che, attraverso i loro versi, affrontano il tema della crisi ecologica, dei confini che ci siamo costruiti nei confronti dell’altro e della cura delle relazioni per mantenere in vita il mondo.

Un intervento che mi è stato particolarmente a cuore è quello di Serenella Iovino, professoressa di Italian Studies and Environmental Humanities presso la University of North Carolina at Chapel Hill, ed una delle massime esponenti delle scienze umane per l’ambiente e dell’ecocritica. “Sconosciute creature senza nome” (titolo del suo intervento) attinge ai versi di poetesse e poeti per raccontare le complicate reti di relazioni che intricano le realtà di esseri umani e non umani.

Vedere l’altro come sé

“Neblina”, così si chiama la poesia di Fabio Pusterla dedicata ad un piccolo mammifero carnivoro, simile ad un procione, che vive nascosto nelle foreste tra Ecuador e Bolivia. Lo hanno chiamato bassaricyon neblina (l’olinguito), e così, da sconosciuta creatura senza nome, improvvisamente diventa qualcosa che possiamo riconoscere. Ma se i nomi ci aiutano a riconoscere e a comprendere qualcosa, allo stesso tempo ci etichettano, ci definiscono, ci distanziano gli uni dagli altri. Se invece ci dimenticassimo di questi nomi, di questi confini, se decostruissimo questi muri, solo allora riusciremmo a farci toccare da queste realtà e, finalmente, vedere l’altro come sé.

Bassaricyon neblina (olinguito)

L’Io, di fronte alla natura, di fronte a ciò che considera altro da sé, ha la possibilità di disfare dei confini predeterminati da una cultura che ci ha distanziato dai non umani. Ma se invece li guardassimo negli occhi, questi confini sbiadirebbero improvvisamente. Se decostruissimo questi muri, queste categorie dei mondi separati, riusciremmo ad ascoltare – e comprendere – i loro linguaggi.

Ogni volta che una specie si estingue, il mondo diventa più piccolo

Dodo, estinto nel 1667

Questa sesta estinzione di massa ci dovrebbe ricordare quanto gli esseri umani e non umani si co-appartengono, perché quando muore una specie, moriamo tutti noi, ed ogni volta che una specie si estingue, il mondo diventa più piccolo. Ma in questo deperimento condiviso, dobbiamo imparare a vedere e a capire la dimensione individuale dell’estinzione. Questo è quello che ci mostra David Quammen, scienziato famoso per il suo libro “Spillover”, pubblicato nel 2012 ma conosciuto da molti solo durante la pandemia. In un suo libro del 1996, “The Song of the Dodo”, racconta l’estinzione del dodo, scomparso per sempre nel 1667 in seguito all’arrivo degli occidentali in Australia:

“Il raphus cucullatus era diventato raro fino alla morte. Ma questo singolo individuo, in carne e ossa, era ancora vivo. Immaginala, dell’età di 30-35 anni, un’età avanzata per la maggior parte degli uccelli, ma non impossibile per un membro di questa specie di così grandi dimensioni corporee. Non correva più, camminava a fatica, ultimamente stava diventando cieca, il suo apparato digerente era lento. Nel buio di un primo mattino del 1667, mettiamo durante un acquazzone, si riparò dietro una pietra fredda alla base di una delle scogliere del Black River. Si appoggiò la testa lungo il corpo, gonfiò le piume per riscaldarsi e girò gli occhi in uno sguardo di paziente infelicità. Aspettava; lei non lo sapeva, nessuno lo sapeva, ma era l’unico dodo rimasto sulla Terra. Quando la pioggia passò, i suoi occhi rimasero chiusi per sempre” (traduzione di Serenella Iovino).

Il racconto dell’estinzione di un dodo per rappresentare la scomparsa di un’intera specie; per raccontare come ogni individuo porta dentro di sé un mondo di sensazioni; per legarci ad un’estinzione altra che in fin dei conti è anche nostra.

Fare kin: creare dei legami

La filosofa statunitense Donna Haraway nel suo libro “Staying with the Trouble – Making Kin in the Chthulucene” parla di fare kin, ovvero di creare nuovi legami (tra umani e non umani) e di risignificare quelli già esistenti. Quando si creano queste nuove parentele, diventiamo automaticamente responsabili per gli esseri (umani e non) che ne fanno parte. Non è forse quello che ci hanno insegnato il piccolo principe e la volpe? La ricchezza di queste interazioni ci rende gentili, ci rende responsabili e ci porta a prenderci cura dell’altro. Gli umani si mescolano ai non umani, crescono gli uni interdipendenti dagli altri, in un con-divenire tra specie che rende fertile il mondo.

Fabio Pusterla dedica un ciclo di poesie all’armadillo, animale che sta risalendo su fino al Canada a causa dei cambiamenti climatici e dei commerci umani. Il poeta, nel raccontare il suo viaggio, ad un certo punto lo immagina fermarsi vicino ad un carro armato:

“Se il carro armato potesse pensare, forse sarebbe stupito. Invece è vuoto, arrugginito e impolverato. Ma l’armadillo è cocciuto: «lei è grande e grosso» gli dice «ma non parla, non saluta! Dovrò morire di sete davanti ad un maleducato?». Per fortuna, dalla mestizia del cannone sbuca adagio un topino: «non badargli» gli fa «questo è un disadattato. Vieni dentro, ti offro qualcosa». E l’armadillo ringrazia”.

Ed è questo che noi tutti ci aspettiamo: che tutti i carri armati diventino dei disadattati, e che gli esseri umani, non umani e tutte le sconosciute creature senza nome possano finalmente fermarsi, ascoltarsi, imparare a stare insieme e, guardandosi negli occhi, creare dei legami.

Scrive per noi

Federica Benedetti
Federica Benedetti
Ha studiato arte presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino e archeologia medievale presso la University of York in Inghilterra. È attualmente studentessa della magistrale di Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato anche per Lavoro Culturale e la rivista pH.