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Afghanistan: una democrazia senza basi

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 5 minuti

Afghanistan: una democrazia senza basi

Una serie di operazioni politico-militari non basta a costruire una democrazia. Difficile obiettivo in un paese con il PIL pro-capite più basso di quello dello Stato più povero dell’Africa e stipendi dei lavoratori tra 1 e 3 dollari al mese. I fallimenti occidentali nel continente più pokemogeno del mondo.

Il ponte aereo che la Difesa sta assicurando dall’Afghanistan all’Italia viene garantito dai velivoli da trasporto dell’Aeronautica Militare (nella foto dell’Aeronautica, un C130 sbarca profughi a Fiumicino)

“Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive della società a cui essa può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza” (Karl Marx, “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica”).

Era il 30 gennaio 1859 e lo scenario che Marx aveva di fronte era quello dell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale avanzata. Ma il principio da lui enunciato è generale e può condensarsi nella domanda: un determinato sistema politico-istituzionale può esistere in qualsiasi situazione socioeconomica? In questi giorni, a proposito della repentina scomparsa della Repubblica islamica afghana a opera dei Talebani, dopo l’abbandono del territorio afghano da parte delle potenze della NATO, ricorre una domanda analoga: come è potuto accadere che il ritiro delle truppe NATO abbia coinciso con la scomparsa del regime in larga parte democratico da esse instaurato e sostenuto? E, mentre questa domanda circola attraverso i media, si auspica che “i semi democratici piantati nella società afghana germoglino, comunque, nel futuro”, si propone di “rivalutare l’interventismo liberale” per l'”esportazione della democrazia” e si prende atto, con il presidente tedesco Steinmeier, della “disfatta dell’Occidente”. Già: perché con il governo talebano rischia di riaffermarsi un regime politico ostile ai diritti umani, ai diritti civili e ai diritti politici.

L’occupazione militare non basta

Il presupposto di queste reazioni occidentali è che per introdurre in un determinato paese la democrazia occidentale basti una serie di operazioni politico-militari. Presupposto erroneo: anche soltanto il ricordo dell’esperienza della Seconda guerra mondiale mostra in modo chiaro l’errore di prospettiva che le classi politiche occidentali continuano a commettere. Sarebbe bastata l’occupazione militare della parte occidentale della Germania e dell’intera Italia a creare le basi di regimi liberal-democratici, senza la promozione della ricostruzione delle economie tedesca e italiana con i cospicui fondi dell’ERP? No, non sarebbe bastato. E la piena consapevolezza di questo “no” si tocca con mano nei documenti politico-economici dei vincitori occidentali della Seconda guerra mondiale. Le istituzioni liberal-democratiche abbisognano di una società civile che si radichi nella sfera della produzione e dello scambio tipica delle società industriali e che risulti refrattaria a svolte totalitarie.

Pochi effetti sulla realtà sociale afghana

Chiediamoci: a vent’anni dall’inizio dell’operazione “Enduring Freedom” condotta dagli Usa e dai loro alleati in Afghanistan, qual è la situazione? Va ricordato che questa operazione si proponeva di distruggere militarmente le basi terroristiche di Al-Qa’ida, non di modificare più di tanto la realtà sociale afghana. Il governo scioltosi come la neve al sole, presieduto, dal 29 settembre 2014 da Mohammad Ashraf Ghani, era una repubblica presidenziale nella quale la legislazione era basata, in parte, sulla legge islamica, con un parlamento bicamerale (Assemblea legislativa eletta a suffragio universale e Senato eletto dai Consigli provinciali). La costituzione era stata approvata dalla Loya Jirga, l’assemblea tribale su sollecitazione, più o meno diretta, delle potenze occidentali.

Il movimento talebano si è sviluppato nella guerriglia successiva alla fine del “protettorato sovietico” (febbraio 1989) con l’espressa finalità di fare dell’Afghanistan un emigrato islamico in cui applicare radicalmente la sharia.

Oggi il nuovo pubblico potere afghano è integralmente religioso, a differenza della Repubblica islamica presieduta da Ghani.

Una economia di sussistenza, con oppio e canapa come principale risorsa

La struttura socioeconomica dell’Afghanistan può essere descritta brevemente così.

Secondo i dati del 2019 raccolti dalla Banca Mondiale, il PIL pro-capite in Afghanistan è di 507,10 dollari: un PIL pro-capite più basso di quello dello Stato più povero dell’Africa, il Burundi (727 dollari). Lo stipendio dei lavoratori oscilla dagli 1 ai 3 dollari al mese. L’utilizzo del suolo (secondo le stime del 2015) è per il 45,95 % prativo, per il 12,12 % arativo, per il 2,07% a foreste e per il 39,86 incolto. L’agricoltura praticata è di mera sussistenza. L’unico settore effettivamente dinamico è la coltivazione del papavero da oppio e della canapa indiana.

Il paese non ha mai avuto una rete ferroviaria (è attivo soltanto un tratto di strada ferrata di 75 km da Hairaton a Mazar-el-Sharif, a binario unico).

Le strade e i ponti, distrutti dalla guerra, non sono stati ripristinati.

Una fragilità che non sorprende

Su queste basi, come può reggere una moderna democrazia, cioè una democrazia liberale? Anche a voler ignorare l’opinione di Marx riferita all’inizio, anche a non chiedersi quali forze sociali ed economiche locali aspirino a ordinamenti democratici, resta una considerazione, assai agevole per un lettore occidentale: soltanto il progresso delle condizioni economiche ha permesso, in Europa, tra il XIX e il XX secolo, di adottare stabilmente istituzioni liberal-democratiche, cioè istituzioni che, in linea di principio e – compatibilmente con le strutture classiste della società capitalistica – anche in linea di fatto, hanno realizzato una certa percentuale di “pari opportunità” di accesso alla ricchezza sociale e a una vita dignitosa (che non sono soltanto economiche, ma dipendono dalle condizioni economiche), sia pure tra contraddizioni, acutamente lumeggiate da Zygmunt Bauman.

La fragilità del regime parlamentare afghano appena defunto non sorprende, dunque, perché, venuta meno la presenza militare occidentale, la realtà socioeconomica dell’Afghanistan si è imposta nuovamente sul piano politico. L’assetto istituzionale non è che il riflesso giuridico dei rapporti sociali di produzione; è illusorio pensare che il diritto e la politica possano essere più avanzate di quanto lo sia il complesso dei rapporti sociali di produzione.

L’integrazione favorisce la pace

Che cosa sostanzia le istituzioni? Il complesso delle consuetudini quotidiane della produzione di beni e di servizi. Tali consuetudini derivano dal modo di produzione. Il modo di produzione è modificato, di solito, dall’industrializzazione, dall’apertura dei mercati e, soprattutto, come notava nel 1943 David Mitrany (“A Working Peace System”), dalla integrazione globale dei settori produttivi che finiscono per esprimere assetti istituzionali e giuridici gradualmente sempre meno compatibili con assetti tipici delle “società chiuse”. Come aveva auspicato Otto Neurath nel 1942 (“International Planning for Freedom”), l’integrazione dei settori produttivi sul piano globale stimolano la formazione di “Istituzioni sovrapposte” ai singoli Stati (“Overlapping Institutions”) in grado di influenzare democraticamente la forma istituzionale degli Stati coinvolte nell’integrazione economica globale.

Non va certamente in questa direzione la decisione di oggi 19 agosto da parte del FMI di sospendere gli aiuti all’Afghanistan.

Si potrebbe obiettare che Mitrany e Neurath pensavano in modo utopico; così, però, si mostrerebbe di trascurare il più clamoroso esempio di quello che potremmo chiamare “Enduring freedom and democracy”, realizzato nel continente più pokemogeno del mondo: l’Europa.

Presa d’atto della realtà

Dal 1951 a oggi sia la presenza della forza militare della NATO, sia la creazione di un mercato comune, poi unico, grazie all’integrazione europea, hanno garantito al nostro continente un settantennio di pace nei rapporti interstatali, modificando abitudini e tradizioni assai risalenti nel tempo, dopo che la secolarizzazione ha ridotto, in età moderna, la fede religiosa a questione privata.

In Afghanistan, invece, non c’è stato alcun fenomeno di secolarizzazione paragonabile a quello europeo: integralismo religioso, società tribale e scarso sviluppo economico sono andati, fino a ora, di pari passo.

L'”interventismo liberale” ha fallito perché è partito dalla lotta contro gli effetti dell’arretratezza (il più visibile dei quali è stato lo sviluppo del terrorismo) senza nemmeno tentare di risalire alle cause socioeconomiche dell’arretratezza stessa e eliminarle.

Queste considerazioni possono non essere particolarmente confortanti, ma sono reali, fattuali; e soltanto con una presa d’atto della realtà (ben più complessa di quanto questo articolo possa mostrare) sarà possibile porsi nella condizione di dare risposte alle attuali domande sul futuro dell’Afghanistan.

 

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Karl Marx, “Per la critica dell’economia politica”, tr. it. Roma, Editori Riuniti, 1957;

Stefano Parodi (a cura di), “David Mitrany tra economia e politica”, Roma, Aracne, 2018;

Stefano Parodi, “La teoria funzionalità di David Mitrany” con, in appendice, D. Mitrany, “Le basi pratiche della pace”, Pisa, CER, 2013;

Otto Neurath, “L’utopia realmente possibile”, a cura di Tiziana C. Carena e Francesco Ingravalle, Milano, Mimesis, 2016;

Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti FALSO!”, Roma-Bari, Laterza, 2013.

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