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La responsabilità degli educatori ambientali nel rispondere all’emergenza sanitaria

| Cecilia Pesci

Tempo di lettura: 7 minuti

La responsabilità degli educatori ambientali nel rispondere all’emergenza sanitaria

Intervista a Fausta Crescia, libera professionista dell’educazione ambientale che da più di dieci anni collabora con diverse realtà per offrire percorsi formativi in Abruzzo.

Fausta Crescia è educatrice ambientale da molti anni e lavora in Abruzzo. Ha completato un corso di studi in Scienze della Formazione e dell’Educazione, ed è una delle poche persone che si sono riuscite a laureare in Educazione Ambientale, poiché il corso è stato chiuso poco dopo la nascita per carenza di iscritti e fondi. Si è gentilmente resa disponibile ad essere intervistata dalla rete per aiutarci a comprendere meglio, nella nostra inchiesta, quali siano state le conseguenze di questo difficile anno per l’educazione ambientale in tutte le sue declinazioni. 

Ti chiederei innanzitutto di presentarti. In quanto libera professionista, non arrivi da una struttura di riferimento. Ci racconteresti quindi come funziona il tuo lavoro, con chi collabori, come organizzi i percorsi formativi?

Innanzitutto, è vero che attualmente non vengo da una struttura di riferimento, però sono nata all’interno di una di esse, il WWF. Questo lo riconosco, perchè mi sono formata nell’ambito del WWF nazionale per l’educazione ambientale, ma anche nelle Oasi WWF. La mia formazione è avvenuta parallelamente sul campo e nelle accademie, perché appena diplomata ho avuto la fortuna di frequentare un corso organizzato nell’89 dalla cooperativa locale COGECSTRE: un corso regionale per educatori ambientali. Un percorso che non ha dato adito a nessuna qualifica professionale, però da lì ho cominciato a farmi le ossa (avevo diciotto anni) seguendo le persone sul campo, ma anche i seminari, la formazione, i corsi del WWF, che hanno sicuramente lasciato un’impronta nel mio lavoro.

Da lì ho cominciato a lavorare all’interno di oasi e aree protette con dei contratti, qualcuno a tempo determinato e qualcuno a tempo indeterminato, ma con tante difficoltà, perché comunque è sempre un settore abbastanza complesso per avere una continuità lavorativa per tutto l’arco dell’anno. Fino a che non sono stata costretta ad aprire una partita IVA. E da lì mi sono da un lato fatta carico di oneri incredibili, però dall’altro mi sono sentita libera perchè potevo andare ovunque, in qualsiasi contesto, presentare le mie idee e progetti in ambito sia privato che pubblico, creando anche collaborazioni solide che hanno portato alla realizzazione di più progetti. Adesso collaboro con tante realtà: WWF in primis, Oasi, Nazionale, ma anche WWF Mediterraneo. Infatti sono stata anche fuori dall’Italia per alcuni progetti di educazione ambientale internazionali: dalla creazione di una rete sentieristica alla fornitura una serie di servizi. Erano incentrati sul portare una fruizione ecologica e il concetto di sviluppo sostenibile in aree fortemente degradate della fascia nord dell’Africa. 

Parallelamente ho intrapreso una collaborazione con Panda Adventure, una società di Roma che si occupa soprattutto di turismo esperienziale, quindi campi avventura, che secondo me sono i progetti che danno i maggiori risultati. Sono quelli residenziali, in cui si è immersi 24h su 24 in un contesto naturalistico ambientale particolare. Non solo senti e ascolti, ma vedi e tocchi proprio degli stili di vita che possono essere perseguiti: dal modello di raccolta differenziata alla ricerca di tracce degli animali nel bosco. Quindi i bambini e i ragazzi , ma anche le famiglie, hanno la possibilità di immergersi in toto in un contesto e viverlo per davvero. 

In passato, quindi, il lavoro che ho svolto è stato piuttosto “itinerante”, ma da dieci anni ho cominciato a collaborare con una fattoria didattica della zona. Questo mi ha permesso di interfacciarmi con una realtà che può farsi portatrice di messaggi positivi, se correttamente indirizzata verso buone pratiche ambientali. La costante pazienza può sicuramente portare a piccoli grandi cambiamenti e questo ha permesso di creare con la fattoria didattica un buon legame. 

Inoltre, collaboro con la COGECSTRE, la cooperativa da cui sono partita, che gestisce un centro di educazione ambientale, intitolato ad Antonio Bellini, colui che per primo mi ha incanalato in questo percorso. 

Infine, in questo periodo sto collaborando anche con un’altra cooperativa, “Il Bosso”, che lavora molto in Abruzzo. Si occupa proprio di turismo esperienziale con molte pratiche sportive: mountain bike, canoa, trekking ecc. Per questo mi sono abilitata anche come accompagnatore di media montagna e guida ambientale escursionistica, nonostante io creda che la professionalità non sia necessariamente legata ai titoli acquisiti. 

L’esperienza durante la pandemia

Ti ringrazio. Per quanto riguarda la tua situazione lavorativa in questo anno di pandemia, come hai dovuto modificare il tuo lavoro per adattarti alla DAD?

Il periodo che stiamo attraversando, seppur complesso dal punto di vista economico, mi ha permesso di concentrarmi sull’autoformazione e sul confronto con altri operatori, nonché sulla realizzazione di percorsi e pacchetti da presentare in DAD. Questi percorsi sono strutturati in modo da essere il più possibile interattivi, come il progetto che sto realizzando con il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Ai ragazzi non chiederò di stare immobili davanti al monitor e subire passivamente la lezione, ma chiederò di alzarsi, muoversi, ballare. Si tratta di un compromesso che sicuramente non può sostituire un’esperienza reale e attiva: la tecnologia può supportare ma non sostituire la parte esperienziale. Ciò che manca è la meraviglia nel sentire, nel vedere e nell’apprezzare sensazioni ed emozioni che possono essere vissute solo in presenza. 

Il messaggio arriva? Non lo so

Quello che io contesto un pochino dell’educazione ambientale di oggi (e non solo di quella a distanza) è che alcuni interventi sono puntiformi, come degli spot. Il messaggio arriva? Non lo so. Io intervengo, faccio la verifica con la classe e l’insegnante, o con il gruppo di riferimento, ma poi non so quanto sia stata efficace sul lungo termine. Mi è capitato parecchie volte di parlare del tema dei rifiuti, per esempio, e se poi a fine giornata vai a raccogliere la spazzatura che hanno prodotto durante la merenda, ti rendi conto che il tuo intervento non ha sortito effetto, non ha dato risultati. E quindi contesto un po’ questo modo di fare educazione ambientale –che purtroppo molte scuole ci chiedono– che è quello di fare la lezioncina. L’educazione ambientale non è la lezione di scienze o di educazione civica o geologia ecc, ma è qualcosa di molto più complesso. Questo è ancora più evidente in periodo di DAD: il fatto di non poter essere sul campo per me è invalidante. Infatti, costruire un’esperienza educativa volta al conseguimento di un obiettivo è un processo molto più lento in DAD, a causa della complessità nell’interazione con i ragazzi. Anche valutare l’impatto del cambiamento indotto in coloro che partecipano ai nostri eventi non è semplice già in presenza, figuriamoci a distanza. L’effetto del nostro intervento non è visibile nel breve termine, ma darà i suoi frutti con il tempo. Spesso il risultato, infatti, non è tangibile, ma si dimostra con scelte quotidiane. Invece, la tendenza generale, in passato come adesso, è la richiesta di un risultato concreto immediato. Nonostante questo, mi adatto. Infatti, ora sto lavorando con un bando intitolato “Parco in Aula”’.

Le lezioni apprese

A proposito dei tuoi progetti in questo periodo, sei riuscita ad attivare nuove sinergie e collaborazioni, seppur in DAD?

Sì. Ho avuto modo di incontrare una bellissima realtà, il Beeodiversity Park, che, ironia della sorte, è a pochissimi chilometri da casa mia, ma ho conosciuto tramite sito internet. In particolare, sono entrata in contatto con un gruppo di studio sugli apoidei e sulla loro vita “selvatica”. Solitamente, quando si parla di api, le si individua come produttori di miele. Per questo, per osservarle, generalmente si preferisce recarsi presso un apicoltore. Tuttavia è importante identificarle anzitutto come esseri viventi, inseriti all’interno di un ecosistema e in una società con dinamiche proprie. Solo a questo punto possono essere considerate come produttrici di miele. Questo concetto viene portato avanti da un gruppo affiatato, che ha dato luogo a un Festival, arrivato alla seconda edizione, accogliendo anche ospiti internazionali. Il contatto con gli esperti è per me molto importante: una volta recepite tutte le preziose informazioni, il mio compito sarà quello di “tradurle”, rendendole accessibili ad un pubblico diversificato. 

Ti sono stati commissionati anche progetti misti? Cioè con attività integrative alla DAD?

Con la cooperativa Il Bosso, che si configura anche come un ente di formazione per gli operatori di educazione ambientale, stiamo pensando alla preparazione di supporti, perlopiù video, da utilizzare anche in presenza, in modo da cogliere ciò che questo periodo ci ha portato. Se in passato preparavo per le singole lezioni ex novo il materiale didattico di supporto, adesso lo faccio in modo più sistematico, per inserirlo in una sorta di nostro “catalogo”. Con il referente di Beeodiversity Park stiamo pensando di realizzare dei filmati all’interno delle arnie, che potrebbero servirci anche nelle future lezioni in presenza. Mi rendo conto, infatti, che le forme di comunicazione variano nel tempo ed è necessario adeguarsi ad esse: questi supporti rispondono alle richieste attuali, quando non lo saranno più li modificheremo. Rinnovarsi è importante per tutti: non credo nella staticità di alcuna professione. 

Difficoltà di programmare, ma l’ottimimismo resta

Per quanto riguarda invece il futuro, il riattivare esperienze anche in presenza, hai accennato a un Festival, che ha avuto anche un supporto online?

Il Bee Natural Festival, svoltosi ad agosto in presenza, ha ricevuto anche un’ampia partecipazione online di chi non è riuscito a raggiungerci. Prossimamente, stiamo organizzando anche dei percorsi di trekking da utilizzare nel momento in cui si potrà. Piuttosto che proporre eventi incerti, preferisco rimanere cauta: per il momento preparo gli strumenti, poi li utilizzerò al momento giusto. Questo implica una situazione quanto mai elastica e logorante: non è possibile fare programmazioni né a lungo né a breve termine. Questo senso di precarietà lo sento molto vicino, ma sono abbastanza ottimista. Aspetterò il momento opportuno, per ora voglio contribuire a limitare la diffusione del virus non creando gruppi che potrebbero favorire il contagio. Per me è fondamentale la sicurezza, la legalità e la qualità del servizio.

Inoltre, le scelte lavorative che ho fatto si riflettono su quelle di vita: cerco sempre di essere coerente, riducendo gli agi e alle comodità. Non sempre essere ecologici è una comodità: ad esempio, per il riscaldamento utilizzo un impianto a biomassa, che è alimentato con le potature degli ulivi. Seguire la green economy, direttive e leggi, per me è solo un primo passo, ma essere ecologici è altro. 

In conclusione, appare evidente come le scelte lavorative e di vita di Fausta Crescia siano state in parte trasformate dalla pandemia in atto; tuttavia, il suo ottimismo e il desiderio di portare un cambiamento nel mondo non sono certamente stati scalfiti. Per chi fosse interessato a collaborare con Fausta, la può contattare al seguente indirizzo: faustacrescia@libero.it

La rivista “.eco” sta raccogliendo le esperienze legate all’educazione ambientale attraverso un questionario, a cui è possibile partecipare accedendo a questo link.

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Cecilia Pesci