Le parole di Greta e la realtà dell’economia
Tempo di lettura: 4 minuti
Occorre prendere coscienza che il mondo che l’economia politica liberistica ha espresso sta giungendo a un bivio fatale a causa del degrado ambientale che esso stesso ha prodotto. Soffriamo e non abbiamo più un futuro perché lo sviluppo oligarchico dell’industrializzazione e della finanziarizzazione della vita economica ha prodotto il degrado dell’ambiente vitale: biologico e sociale.
Francesco Ingravalle
Greta Thunberg di fronte ai “potenti” della terra.
Sembra lo spettacolo hegeliano dello scontro tra la virtù e il corso del mondo; oppure lo spettacolo del socialismo utopistico che bussa alla porta dei potenti del tempo per convincerli dell’irrazionalità delle loro condotte. “Noi soffriamo! Fate qualche cosa!”, “Ci avete privato e ci state privando del nostro futuro!”. Noi soffriamo. Noi non abbiamo più un futuro. Cinquant’anni e più fa una canzone de “I Giganti”, La bomba atomica recitava: “Noi, non abbiamo più nessun amore, né una casa da difendere dai mali del mondo… noi non abbiamo paura della bomba atomica!”. Era l’epoca dell’equilibrio del terrore atomico, in piena “guerra fredda”.
Ora, al terrore atomico si aggiunge il terrore per il degrado ambientale.
Noi soffriamo. Noi non abbiamo più un futuro. Perché? Perché lo sviluppo oligarchico dell’industrializzazione e della finanziarizzazione della vita economica ha prodotto, con l’anarchia della produzione tecnologica ovviamente non commisurata alle esigenze di tutela dell’ambiente, il degrado dell’ambiente vitale: biologico e sociale. Secondo un’andatura del tempo sempre più rapida, perché misurata sulla logica aritmetica della crescita dei profitti, la logica del denaro, l’accelerazione della storia di cui parlava Daniel Halévy nel 1948 e di cui ha parlato recentemente Zygmunt Bauman, ha comportato un sempre maggiore sacrificio umano a quelli che dovevano essere soltanto strumenti per vivere meglio.
La funzione subalterna delle scienze applicate
Le scienze applicate alla tecnologia hanno svolto, lungo tutto il percorso della storia dell’industrializzazione, la loro funzione subalterna a interessi che niente hanno né di sociale, né di scientifico, né di ecologico. Del resto, la strumentale acriticità della scienza applicata alla tecnologia era stata già messa in scena da Heinar Kipphardt nel dramma Sul caso di J. R. Oppenheimer (1964), il fisico statunitense che si era rifiutato, nel dopo-guerra, di continuare a lavorare ai progetti di utilizzo militare dell’energia nucleare ed era stato, conseguentemente, bollato e indagato come “agente dell’Unione Sovietica.”
Abbiamo detto “funzione subalterna della scienza applicata alla tecnica.” Subalterna a che cosa? Alle dinamiche del libero mercato sulle quali si misura, di fatto, ogni azione e ogni pensiero che abbia rilievo sociopolitico, oggi.
Che l’appello di alcuni scienziati, o di alcune organizzazioni internazionali, o, ancora, di gruppi anche cospicui – cospicui fino al punto di diventare masse – ai potenti della terra restino inascoltati oppure ascoltati paternalisticamente e, quindi, sostanzialmente ignorati, nonostante i chiari segni climatici e ambientali di una minaccia che tocca tutti – “potenti” della terra compresi – non è uno spettacolo sorprendente. Nel 1903, ancora, Daniel Halévy in un suo racconto lungo intitolato 1997-2001. Storia di quattro anni ha mostrato come il mondo del profitto sia ottuso come la proverbiale scimmia che sega il ramo dell’albero su cui sta seduta o il verme che divora avidamente la mela in cui risiede, ignaro che, quando l’avrà divorata tutta, morirà di fame. Non è la malvagità, ma la stupidità dell’attuale sistema socioeconomico globale a essere degna di nota.
L’economia capitalistica comporta inevitabilmente il degrado ambientale perché il suo scopo è guadagnare di più
Da un bel pezzo sappiamo che nessun “piano di dio” o “piano della ragione” o “marcia del progresso” governa la storia umana, ma che la governano il caso e la logica dei “giochi non cooperativi” di Nash e i rapporti di forza tra i competitors. Già da un bel pezzo il disagio per lo sfruttamento umano si è trasformato in critica delle cause dello sfruttamento e in azione rivolta a cancellarlo (per quanto senza successi durevoli). Dopo il dispiegamento di un lungo processo entropico (anni Novanta del secolo scorso e primo ventennio del XXI secolo) assistiamo, ora, al sorgere di un movimento di massa, mediatico, di opposizione allo sfruttamento dell’ambiente. Come il movimento dei “non garantiti” che nella seconda metà degli anni Settanta del XX secolo inverò le tesi di Herbert Marcuse formulate alla metà degli anni Sessanta, anche l’attuale movimento manifesta il disagio immediato per i rischi ambientali senza collegare il degrado ambientale allo sviluppo dell’economia capitalistica.
L’economia capitalistica, fondata sul libero scambio, comporta inevitabilmente il degrado ambientale, perché l’obiettivo dei competitors è guadagnare di più, non guadagnare nei limiti della tutela dell’ambiente: se necessario, per il profitto, vada pure in malora l’ambiente; questo non lo si dice, ma lo si fa, pur promettendo di agire “nel rispetto dell’ambiente”. Disastro ambientale e sfruttamento socioeconomico sono ferreamente connessi. Si tratta di due facce della medesima medaglia. Non è esistito nel passato, non esiste nel presente e non pare proprio che esisterà in un futuro relativamente vicino, un “capitalismo dal volto umano” o un capitalismo rispettoso di nient’altro che non sia denaro e profitto, un “capitalismo di buon cuore”. Il “cuore” non c’entra con la dinamica del profitto. L’unico capitalismo non dannoso è il capitalismo vincolato agli obiettivi del bene pubblico, al bene della maggioranza degli esseri umani, agli standard di felicità di una vita, nei termini individuati da Otto Neurath nel suo saggio pianificazione internazionale per la libertà del 1942. Un’economia e una finanza governato attraverso gerarchie della competenza controllate dal basso è, forse, un obiettivo che il nuovo movimento potrebbe porsi, una volta evolutosi da movimento di denuncia a movimento politicamente propositivo.
Clamorosamente, la critica ecologica, se intende essere conseguente e incisiva, deve incontrare nel suo cammino un pensatore già dato per “superato”, Karl Marx e un pensatore il cui rilievo sociologico e politico non è stato sufficientemente valorizzato, Otto Neurath. Le soluzioni storiche ispirate al nome di Marx fanno parte del passato, non sono soluzioni adatte a ogni tempo del lungo percorso dell’economia capitalistica. Ma la critica dell’economia politica liberistica sviluppata da Marx torna a essere di attualità, ora che il mondo che l’economia politica liberistica ha espresso sta giungendo a un bivio fatale a causa del degrado ambientale che esso stesso ha prodotto. Occorre prenderne coscienza: perché le parole di Greta e dei suoi coetanei – e la salvezza di noi tutti – non siano travolte dal fantasma collettivo acefalo a caccia del profitto.
Ultimi articoli
.Eco è la più antica rivista di educazione ambientale italiana. Un ponte fra scuola, associazioni, istituzioni e imprese
ABBONAMENTO INTEGRATO
Scrive per noi
- FRANCESCO INGRAVALLE
Dello stesso autore
- Opinioni11 Settembre 2024Verso una integrazione europea, il richiamo di Mattarella per un’unione più solida
- Opinioni15 Giugno 2024Il governo mondiale che non c’è. Considerazioni a margine del G7
- Notizie22 Maggio 2024Apocalisse: l’essere umano di fronte ai suoi atti
- Opinioni2 Maggio 2024Storia e guerra, fino a ora un binomio indissolubile