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Il circolo vizioso della guerra. Su Edgar Morin, “Di guerra in guerra”

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 5 minuti

Il circolo vizioso della guerra. Su Edgar Morin, “Di guerra in guerra”

La guerra è un conflitto dove politica e interessi economici giocano un ruolo cruciale: un demone che si ripresenta ostinatamente, sicché un testimone del XX secolo come Edgar Morin può intitolare il suo ultimo lavoro Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa.

Carl von Clausewitz ha scritto che la guerra, “nei suoi contorni principali non è che la politica stessa, che depone la penna e impugna la spada, ma non cessa ciononostante di obbedire alle proprie leggi” (Della guerra (1832), libro VIII), quasi a capovolgere il verso ciceroniano “cedant arma togae concedat laurea laudi” (il verso tratto dall’autocelebrativo De consulatu suo, citato nel De officiis I, 22, 27 e in Philippica II, 8, 20): “le armi si ritirino di fronte alla toga e la corona d’alloro di fronte al merito”.

Nella guerra è la toga della legge a ritirarsi difronte alle armi e il merito di fronte alla corona d’alloro; o, in una prospettiva più fosca, la toga e il merito sono strumenti della guerra che, a sua volta, è il mezzo politico degli interessi finanziari. Il politico – come strumento dell’economico- è indistricabilmente connesso alla guerra: Carl Schmitt, icasticamente, identifica il politico come dimensione concettuale che si regge sulla contrapposizione fra “amico” e “nemico”, rileva che stabilire chi è “amico” e chi è “nemico” spetta a chi esercita il potere sovrano e aggiunge che “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Chi se non il credito, per lo meno oggi, esercita il potere sovrano? Quale Stato può comandare al credito, cioè all’economica finanziaria di cui ha bisogno non soltanto per le necessità quotidiane, ma anche per armarsi?

Tre guerre mondiali

Dal tempo in cui il movimento delle merci è diventato lo strumento per spostare denaro e ricavare profitti crescenti abbiamo avuto tre guerre mondiali: la prima (1914-1918), la seconda (1939-1945), la terza (1947-1989/91) e abbiamo, attualmente, ben centosessanta guerre in corso, la più nota al grande pubblico di esse è la guerra russo-ucraina. Ben poco rimane della illusione di Montesquieu e di Kant sul “dolce commercio” portatore di pace e della convinzione di Voltaire secondo la quale nel mondo degli affari la violenza sarebbe bandita e sostituita dalla trattativa. Il demone della guerra si ripresenta ostinatamente, sicché un testimone del XX secolo come Edgar Morin può intitolare il suo ultimo lavoro Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (tr. it. di Susanna Lazzari, prefazione di Mauro Ceruti, Milano, Cortina, 2023).

La guerra, nota Morin “per sua natura, per l’isteria alimentata dai governanti e dai media, per la propaganda unilaterale e spesso menzognera, comporta una criminalità che va al di là dell’azione strettamente militare” (p. 37), posto che ogni azione militare, di per sé non consiste in una somma di atti di beneficienza. Del resto, sei secoli prima della nostra èra, lo scrittore militare cinese Sun Tzu affermava: “Il tao della guerra è l’inganno” e, a proposito della Prima guerra mondiale, lo storico Marc Bloch aveva sviluppato una fine analisi delle menzogne di guerra: si tratta di attizzare l’odio delle folle contro il nemico a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo – di quelle folle di cui Freud (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921), seguendo Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, 1895) scrive che “amano, odiano, ma non pensano”. Immani forze psico-sociali vengono, così, scatenate attivando una “ecologia dell’azione”: “ogni azione entra in un gioco di interazioni e di retroazioni che possono modificare il senso dell’azione, se non invertirla, e farla ricadere sulla testa del suo autore” (p. 62).

Nessuno può prevedere esattamente le conseguenze dell’autoalimentazione dei conflitti e della progressiva radicalizzazione dell’odio fra i popoli: nessuno in effetti, ha previsto, né la prima, né la seconda, né la terza guerra mondiale; le correnti delle passioni sono imprevedibili, non misurabili- scatenarle equivale ad aprire il famoso “vaso di Pandora”. Spesso ci si affida a un pensiero lineare, meccanicista, “incapace di concepire la complessità dei fenomeni” (p. 64).

Potenze imperiali

La guerra russo-ucraina, vista in controluce evidenzia che Stati Uniti e Russia hanno in comune una colonizzazione non in terre lontane, ma per estensione del loro territorio in continuità continentale “fino al Pacifico occidentale per gli Stati Uniti, fino al Pacifico orientale per la Russia” (p. 68). Sebbene l’U.R.S.S. sia scomparsa, la Russia è ridiventata una potenza imperiale; gli Stati Uniti “controllano direttamente o indirettamente le nazioni occidentali e alcune asiatiche e africane” (p. 71). Si tratta, forse, di due modelli etico- politici eticamente diversi? Gli Stati Uniti, una delle patrie della democrazia, “sterminarono le nazioni autoctone” e “praticarono la schiavitù di massa dei neri fino al 1865”, intervennero nei colpi di Stato in favore di dittature in Guatemala, Cile, Argentina e asservirono politicamente i paesi dell’America Latina; devastarono il Vietnam, invasero l’Iraq “con il pretesto menzognero che questo paese detenesse l’arma nucleare, e poi una seconda volta in spregio del diritto internazionale” (pp. 69-70). La Russia mantenne fino al 1861 la servitù della gleba, “non praticò lo sterminio dei popoli indigeni conquistati in Siberia, né la schiavitù, ma non pervenne mai alla democrazia né alle libertà civili.” (p. 70). Come U.R.S.S. dominò su tutta l’Europa orientale dopo il 1945, intervenendo militarmente a ogni accenno di dissenso (Ungheria, 1956; Cecoslovacchia, 1968).

L’unica dimensione del conflitto fra Stati Uniti e Russia è la dimensione del conflitto di potenza che da Nietzsche in avanti abbiamo imparato a riconoscere come “amorale” – al di là o a di qua del bene e del male; “l’Ucraina è una preda importante, tanto per la Russia putiniana che conserva il sogno di ricostituire l’Impero slavo, quanto per gli Stati Uniti che insedierebbero così la N.A.T.O. alle frontiere occidentali della Russia. Di fatto, l’Ucraina è la posta in gioco di due volontà imperiali […]” (p. 83). Di fatto, la rivoluzione democratica filoccidentale di piazza Maidan, a Kiev, nel 2014, ha scatenato la secessione delle regioni russofone del Donbass e l’annessione della Crimea da parte della Russia.

Paradossi della politica

Gli accordi di Minsk non sono riusciti a mettere fine alla guerra che è continuata sul fronte del Donbass facendo 14.000 morti fino al 2022. Peraltro, dopo il 2014, “il controllo americano si accresce con l’aiuto economico e militare, che rende l’Ucraina sempre più dipendente dalla potenza che sostiene la sua indipendenza.” Paradossi della politica, si potrebbe dire. Con ogni evidenza, se la Russia è l’autrice di questa guerra, “lo è al termine di un processo di radicalizzazione reciproca” (p. 90), dato che Zelenskij “in un primo tempo riconosceva che la sola soluzione al conflitto fosse diplomatica”, ora vede come soluzione soltanto “la vittoria” (p. 89).

Non ci troviamo di fronte a una sola guerra, a tre guerre in una: “la continuazione della guerra interna fra potere ucraino e provincia separatista, la guerra russo-ucraina e una guerra politico-economica internazionalizzata antirussa dell’Occidente animata dagli Stati Uniti” (p. 93). Dal 2014 al 2022, la linea degli eventi è stata, contrariamente alle guerre precedenti, ampiamente prevedibile: l’aggressione russa ha consolidato la resistenza ucraina e ha cancellato, temporaneamente, le divisioni dell’Occidente; ma il conflitto russo-ucraino è diventato un conflitto fra Russia e Occidente. Nessuno può escludere il pericolo nucleare, data la gravità della congiuntura mondiale nella quale siamo entrati: blocco delle materie prime e dei prodotti cerealicoli, crescente rarefazione di prodotti di ogni sorta (compresi i prodotti alimentari), inflazione.

Le voci per la pace sono ben poche: “parlare di cessate il fuoco, di negoziati, è denunciato come una ignominiosa capitolazione da parte dei bellicosi, che incoraggiano la guerra che vogliono a tutti i costi evitare a casa loro” (p. 99). Forse è impossibile negoziare con un despota per l’Occidente? Ma “l’Occidente ha negoziato con Stalin e Mao, negozia con Xi Jinping” (p. 101).

Le condizioni della pace sono ben chiare: “il riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina o con uno statuto di neutralità, o con la sua integrazione nell’Unione Europea e dunque con una garanzia militare” (p. 101); ma la regione separatista del Donbass non dovrebbe tornare sotto la sovranità ucraina dove la popolazione russofona sarebbe oppressa e repressa. La Crimea, inoltre, è più russificata che ucrainizzata.

Una pace urgente

La pace è urgente, anche perché l’impatto della guerra sul piano economico e sociale si è associato alle conseguenze del cambiamento climatico: se nel 2017 ottanta milioni di esseri umani erano sull’orlo della carestia, dopo la pandemia da Covid-19 ce n’erano già duecentosettantasei milioni e oggi ce ne sono trecentoquarantacinque milioni. Si può osservare che tanto il disastro climatico, quanto le centosessanta guerre attuali sono aggravate dalla inesistenza di un’istanza sovranazionale in grado di vincolare i singoli Stati a scelte di risanamento della biosfera e di cessazione delle guerre.

Certamente è utopico parlare di “Stato mondiale” come soluzione razionale, ma l’alternativa è, attualmente, l’anarchia delle relazioni politiche, economiche e tecnologiche internazionali appena moderata dalla cooperazione volontaria e intermittente dei diversi Stati. Troppo poco, data la gravità della crisi attuale che è economica, sociale, politica, climatica. Una crisi a tutto tondo, dunque.

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FRANCESCO INGRAVALLE
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