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Il Kenya, con la più grande discarica dell’Africa orientale, vuole essere da esempio per combattere l’inquinamento. Ma la strada da fare è ancora molta

| Carola Speranza

Tempo di lettura: 3 minuti

Il Kenya, con la più grande discarica  dell’Africa orientale, vuole essere da esempio per combattere l’inquinamento. Ma la strada da fare è ancora molta

Dal continente africano cominciano ad arrivare alcuni messaggi di rivoluzione green, ma intanto, da Dandora, la discarica più grande dell’Africa orientale nella periferia di Nairobi, le cose continuano a non cambiare, anzi.

Dandora è la più grande discarica dell’Africa orientale e svetta tra gli slum di Korogocho e Dandora, da cui prende il nome, nella periferia di Nairobi. Definita satura da anni, questo mostro tentacolare e stratificato di rifiuti continua a crescere, inglobando nuovi lavoratori, in gran parte bambini, e scarti della società ricca, povera, africana ed estera. Tutto confluisce qui, in uno dei posti più inquinati del pianeta.

Una lavoratrice spacca il vetro per poterlo smistare, davanti alla sua abitazione. Foto di Paola Viola.

Tante le donne, gli uomini e soprattutto i bambini che rimangono intrappolati nella discarica, alla ricerca di una possibilità di lavoro e di vita. Smistando i rifiuti, che dovrebbero essere riciclati o venduti alle grandi potenze come Cina e India, centinaia di persone vivono all’interno della discarica, dove hanno creato delle vere e proprie abitazioni. Per non uscire mai, per cercare di ricostruirsi una vita, in un posto che, però, puzza solo di immondizia e di principio di morte. Non si sa con esattezza il numero dei decessi che indirettamente o direttamente Dandora abbia già provocato, ma sono sempre in aumento gli incendi dolosi al suo interno e la propagazione di malattie. Eppure, proprio da Nairobi, quest’anno, stanno arrivando delle novità mai viste prima nell’ambito della salvaguardia ambientale.

Ci sono delle novità, e sono, finalmente, positive

Proprio nel mese di marzo, si è conclusa, a Nairobi, la quinta Assemblea sull’ambiente delle Nazioni Unite: l’Unea. Quest’ultima, che si riunisce ogni due anni, è il massimo organo decisionale internazionale in tema di questioni ambientali e copre una rappresentanza di 193 paesi delle Nazioni Unite. Se quest’anno il tema del dibattito verteva sul “Rafforzare le azioni per la natura allo scopo di raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile” (Strengthening Actions for Nature to Achieve the Sustainable Development Goals), e sono stati individuati ben 17 obiettivi da rispettare, è solo uno quello che ha fatto la storia di quest’assemblea. Si è deciso di creare un ente intergovernativo con il preciso compito di formulare un accordo internazionale e vincolante che possa mettere fine all’inquinamento dovuto dalla plastica. Il primo obiettivo sarà la riduzione minima, se non assoluta, della plastica monouso. L’aspetto più innovativo della decisione riguarda la volontà di creare una regolamentazione che sia vincolante, incentivando così non solo la sua realizzazione, ma anche il rispetto di essa.

Stop all’importazione di materiale elettrico ed elettronico

Non solo, il Kenya, dal primo giugno, insieme ad altri membri dell’Eac, la Comunità dell’Africa orientale, proibirà l’importazione di dispositivi elettrici ed elettronici usati. Secondo la vigente norma del trattato di Basilea, era possibile importare materiali che fossero ancora utilizzabili e che avessero quindi una possibilità di riciclo. Questo comportava, spesso, l’importazione di elementi elettronici di tecnologia ormai superata nel contesto d’origine, che poteva invece godere di una seconda vita in un contesto meno avanzato. Ma secondo una ricerca riproposta da “Nigrizia”, del trasferimento, in questo caso legale, il ben 60% di quanto importato non era in nessun modo riutilizzabile. In poche parole, sfruttando la larga libertà di interpretazione del trattato, molti rifiuti elettrici ed elettronici venivano spediti in diverse parti dell’Africa, tra cui appunto il Kenya, per essere scartati a basso costo e non riciclati.

C’è ancora tanta strada da fare, bisognerebbe ripartire proprio dalla fumante e inarrestabile Dandora

Una lavoratrice lava il materiale da riutilizzare nella discarica di Dandora. Foto di Paola Viola.

L’allarme non è solo di stampo ambientale ma anche salutare: gli elementi che compongono gli apparati elettronici contengono sostanze potenzialmente dannose, mettendo così a rischio la salute dei lavoratori della discarica, come quella di Dandora. Sono tante le donne e i bambini che, sotto il controllo della criminalità che detiene il vero potere della discarica, sono obbligate a lavorare in condizioni disumane, sotto il sole africano, per tutto il giorno, per guadagnare circa un dollaro e mezzo al giorno. Finché questa discarica continuerà ad essere l’unica possibilità di lavoro e, paradossalmente, di riscatto per le famiglie degli slum più poveri della periferia di Nairobi, finché anche i nostri rifiuti daranno motivo di lavoro e quindi alimento alla criminalità della discarica, questo posto non chiuderà. Bisognerebbe ripartire da un sistema riciclaggio statale, che vada contro il sopruso di potere degli chief locali, i veri proprietari della discarica. Ma questo sembra essere ancora un sogno lontano: non c’è ombra di cambiamento e nessuno sembra citare un programma di riqualificazione durante la campagna elettorale, che porterà alle elezioni di agosto. Di Dandora non si parla, ma intanto lei cresce e tanti, troppi bambini, ne rimangono intrappolati, potenzialmente, per sempre.

Scrive per noi

Carola Speranza
Carola Speranza
Dopo aver conseguito la doppia laurea triennale nel dipartimento di Lettere moderne all’Università degli studi di Torino e Université Savoie Mont-Blanc, ottiene la laurea magistrale binazionale in Filologia moderna all’Università Sapienza di Roma e Sorbonne Université di Parigi. È fondatrice e autrice del blog “Grandi Storielle”.