“La strada come luogo di pace e di incontro”. Come rivoluzionare il concetto di strada e ridare il giusto peso alle parole, con Marco Scarponi
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Non parliamo di “incidente”, o “strade killer” o, ancora, “auto impazzita”. A quasi sei anni dalla morte del pluripremiato ciclista Michele Scarponi, morto sulla strada durante un allenamento, Marco Scarponi ci racconta della Fondazione dedicata al fratello, dei vantaggi di “città 30” e dell’educazione ambientale, che passa, soprattutto, dalle nostre parole.
La Fondazione Michele Scarponi ONLUS, nata nel 2018, l’anno successivo alla morte dell‘Aquila del Filottrano, così era stato soprannominato il ciclista per le sue note doti da scalatore, crea e finanzia differenti progetti che hanno come obiettivi l’educazione al corretto comportamento stradale e una cultura del rispetto delle regole e dell’altro, come si legge dal loro sito. Tanti i progetti nelle scuole e tanti i momenti di divulgazione, in giro per l’Italia, per sensibilizzare a quello che dev’essere un nuovo approccio educativo al tema della mobilità. Per questi motivi, e non solo, abbiamo voluto intervistare Marco Scarponi, fratello di Michele e fondatore della Fondazione.
Partirei da una domanda che potrebbe sembrare lontana o banale, ma che fin da subito ci porta ad un argomento che sarà centrale in questa intervista e che hai più volte rivendicato: l’importanza dell’uso delle parole. Qual è la tua definizione di “strada”?
MARCO SCARPONI: Per me la strada è un bene comune. È un luogo innanzitutto di pace e di incontro, di cui tutti quanti siamo custodi e responsabili. Dobbiamo viverla nel rispetto di tutti.
Città 30 può essere una soluzione?
Secondo quanto riportato dal Sole 24 ore, nel 2022 le violazioni accertate per eccesso di velocità sono state 421.973; sono state ritirate 30.560 patenti di guida; i punti patente decurtati sono stati 2.120.631. Città 30 può essere una prima soluzione al problema?
M.S.: Questo è un paese che fa pochi controlli: se ne fanno molti meno rispetto a Germania, Svezia o ancora Finlandia ed Inghilterra. Nonostante questo, come si può vedere, fa molte violazioni. E questo dà subito un quadro della situazione. Città 30 è una grande rivoluzione, che però avviene in un paese che non è ancora capace di comprenderla. Speriamo che ci riesca. Perché “Città 30” non significa semplicemente cambiare un cartello del limite di velocità, ma è la modifica di uno spazio, che richiede la partecipazione dei cittadini. Cerchiamo di modificare la strada affinché soprattutto gli automobilisti non possano andare fisicamente ad una velocità più elevata. Ma non solo, si deve restringere la carreggiata, allargare i marciapiedi, ridistribuire lo spazio della strada in un modo più democratico: togliendo a chi ne ha di più, per darlo a chi ne ha di meno.
È un lavoro che dev’essere accertato dai controlli e affiancato da alternative, come l’aumento dei mezzi pubblici. Il modello della città 30 noi lo portiamo nelle scuole, dai ragazzi, ne parliamo con loro. Ci affacciamo alla finestra e pensiamo a come modificare la strada, li interroghiamo: “Secondo voi questa strada è giusta o non è giusta? Come si può migliorare?”. E partiamo da chi va a piedi o in bicicletta, perché tutti possano partecipare in maniera equa e sostenibile.
Oltre al fatto che le città 30 sono latrici di molti vantaggi che vanno dal turismo alla sostenibilità, come ormai ampiamente provato.
M.S.: I vantaggi sono tantissimi. Da qualsiasi punto di vista lo si guardi: è un vantaggio per la salute della città e della persona; per l’ambiente; per l’economia, che ancora non riusciamo a vedere e capire. In Spagna ci sono molte città 30 perché c’è stata una volontà centrale di intraprendere un percorso, che è andata oltre al partito di destra o di sinistra. Questo non è un problema di pregiudizi o un problema ideologico, in quanto riguarda direttamente la qualità della vita delle persone.
Il linguaggio e il suo potere
Le parole sono importanti. Spesso, però, vediamo come alcuni strumenti di comunicazione non riescano sempre a trovare quelle giuste. Per esempio, come hai ribadito più volte, non è corretto parlare di morti della strada ma morti sulla strada. Quanto un certo tipo di narrazione, e quindi un certo tipo di linguaggio, può incidere sulla consapevolezza dei molti?
M.S.: Incide tantissimo perché le parole modificano il nostro pensiero. Già la parola “incidente” è una parola sbagliata, bisognerebbe parlare di violenza, o in certi casi di omicidio. La parola “incidente” ci fa pensare al caso, la classica frase “si è ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato” è sbagliata. Deresponsabilizza chi ha commesso l’errore. Togliere la parola “incidente” sarebbe già un successo. Perché consideriamo l’incidente stradale come un meteorite che ci piomba addosso quando invece ci sono dei responsabili. E poi c’è il problema dei luoghi comuni giornalistici, che tendono a deresponsabilizzare e modificare la narrazione della verità, come quando si parla di “auto impazzita” oppure “strada killer”. Sono luoghi comuni che tolgono responsabilità umana e puntano il dito contro una fatalità, un destino o contro un mezzo.
Michele non è stato ucciso da un furgone, Michele è stato ucciso da un uomo che guidava un furgone. Ed è importante dirlo. Che vuol dire ucciso da un furgone? Che vuol dire ucciso da un’auto? Quando qualcuno spara non diciamo che è stato ucciso da una pistola.
Inoltre, notiamo come ci sia sempre più una colpevolizzazione delle vittime, che va spesso dai ciclisti ai pedoni. Quante volte sentiamo che “il pedone aveva attraversato guardando il cellulare”. Ma quello che veniva con la macchina dove guardava? E, soprattutto, andava ai 30km/h? E spesso vengono uccisi sulle strisce pedonali, dove l’automobilista dovrebbe fermarsi per legge. Oppure parliamo di bambini: può capitare che uno fugga dalla mano della mamma, dobbiamo considerare la madre una responsabile? Il bambino deve fare il bambino ma il problema è che le nostre città sono diventate fiumi di morte. Questo è il dramma.
Per rimanere in tema, secondo l’Asaps quest’ultimo weekend, dal 24 al 26 marzo 2023, è stato il fine settimana che ha registrato più vittime dall’inizio dell’anno. (Nelle 72 ore, sono stati 21 gli automobilisti deceduti, 7 motociclisti, 4 pedoni, 2 ciclisti e 1 conducente di van). Rimane una strage silenziosa, perché non fa notizia?
M.S.: Se ci pensi sono anni che non vediamo spot dedicati alla sicurezza stradale. Della sicurezza dei ciclisti non se ne parla mai, non c’è alcuna campagna comunicativa. C’è qualcosa a livello regionale o locale ma sempre basata su degli standard vecchi, così come l’educazione che si fa nelle scuole, che rimane ancora molto letterale, sulla sicurezza passiva, basata sulla propria protezione e basta. È giusto insegnare ai bambini a dare la mano per attraversare la strada, data la pericolosità delle nostre strade. In questo modo, però, stiamo anche dichiarando che c’è una legge del più forte sulla strada, ed è il più forte che comanda. Questa non è una strada di pace e di sicurezza. Questo è come dire andiamo in guerra, ma difendiamoci. Ma noi non vogliamo la guerra sulla strada.
L’educazione come punto di ripartenza, ma dove sono gli adulti?
In conclusione, dopo aver parlato dell’importanza dell’uso delle parole, della cultura, arriviamo a parlare di scuola. Un posto che conosci bene con i tuoi numerosi interventi con la fondazione Michele Scarponi. Qual è il ruolo dell’educazione ambientale? Si può partire da quest’ultima per fare una rivoluzione che fatica ad arrivare dall’alto?
M.S.: Sicuramente si può partire da lì. Con l’educazione ambientale si deve parlare anche di educazione della mobilità: sono due elementi da legare. Quello che a me fa rabbia è che non abbiamo ancora formatori adeguati in questo paese, dal mio punto di vista. Bisognerebbe fare un impatto educativo forte, con la società, con i ragazzi: bisogna andare preparati ma soprattutto bisogna dare l’esempio. Purtroppo, ed è triste dirlo, quando vado nelle scuole e parlo di non usare i cellulari o ripensare insieme alla strada, so che i ragazzi all’esterno vedranno tutt’altro. Mi chiedo se serva quello che faccio, perché nella realtà poi mancano i fatti, e i fatti devono dimostrali gli adulti. Il problema non sono gli studenti, che sono disposti a cambiare, il problema è che l’Italia è un paese vecchio, con tanti adulti che non vogliono cambiare.
Per supportare la Fondazione Michele Scarponi, questo è il link per accedere al loro sito, dove poter fare donazioni o tesserarsi, supportando le differenti attività e progetti.
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Scrive per noi
- Carola Speranza
- Dopo aver conseguito la doppia laurea triennale nel dipartimento di Lettere moderne all’Università degli studi di Torino e Université Savoie Mont-Blanc, ottiene la laurea magistrale binazionale in Filologia moderna all’Università Sapienza di Roma e Sorbonne Université di Parigi. È fondatrice e autrice del blog “Grandi Storielle”.
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