L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata
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Nel suo libro “L’uomo a una dimensione”, pubblicato nel 1964, il filosofo Herbert Marcuse propone una critica radicale del mondo occidentale e orientale attraverso una critica del capitalismo e della società comunista dell’Unione Sovietica. Quasi sessant’anni dopo la sua pubblicazione, questo libro è ancora il riflesso di una chiusura politica che caratterizza la contemporaneità.
Nel 1964 uscì un volume destinato a modificare per lungo tempo il modo di affrontare gli studi sociali: One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society (Beacon Press, Boston); entro il 1968, il volume è tradotto in francese (L’homme unidimensionnel: essai sur l’idéologie de la société industrielle avancée, Paris, Éditions du Minuit, 1971), in italiano (L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1967), in tedesco (Der eindimensionale Mensch: studien zur Ideologie der fortgeschrittener Industriegesellschaft, Berlin, Luchterhand, 1968) e, con La fine dell’utopia (1967, traduzione italiana Bari, Laterza, 1968) entra nelle bibliografie dei “contro-corsi” dei movimenti di contestazione studentesca occidentali.
Quei movimenti che contestano il capitalismo privato occidentale e il capitalismo di Stato orientale in nome di una diversa qualità della vita trovano nel libro di Marcuse una “sponda teorica” importante. Perché? E questa “sponda teorica” appartiene al passato, oppure è in grado di parlare ancora al “mondo in fiamme”? Quello che colpì molti dei lettori di oltre cinquant’anni fa era la critica radicale del mondo occidentale e orientale.
Già nel 1954 in Soviet Marxism (traduzione italiana, Parma, Guanda, 1968) Marcuse aveva rilevato (sulla scia di Bruno Rizzi, La bureaucratisation du monde, 1939, tr. it. Milano, Colibrì, 2010 e di James Burnham, The Managerial Revolution, 1941, traduzione italiana Torino, Boringhieri, 1994) la sostanziale convergenza dei sistemi economici e sociali (anche se non dei sistemi politici di selezione della classe politica) del mondo legato agli U.S.A. e del mondo legato all’U.R.S.S. in nome di un modello ugualmente fondato sullo sfruttamento e sull’alienazione del lavoro umano. E aveva rilevato la sostanziale integrazione della classe operaia occidentale nelle politiche belliciste promosse dalla N.A.T.O. Marcuse ha sostenuto che il potenziale critico andava ravvisato in tutti coloro che, in questo ‘ordine’ sociale non erano ancora stati integrati.
“In un mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”
Nel mondo studentesco europeo della metà degli anni Sessanta circolavano già le tesi situazioniste centrate sulla produzione di “situazioni” che infrangessero l’apparenza dello “spettacolo” (si ricordi il documento del 1966, pubblicato a Parigi, Della miseria dell’ambiente studentesco considerata nei suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e specialmente intellettuale e di alcuni mezzi per porvi rimedio) generata dal ciclo capitalistico produzione-consumo-nuova produzione-nuovo consumo (nel 1967 in La société du spectacle, tr. it. Milano, SugarCo, 1990, Guy Débord scriveva: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (p. 96) e “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” (p.88)). Dal tempo della Prima Internazionale, mai si era assistito a un così radicale rifiuto dell’esistente in nome di un mondo migliore possibile, proprio nel cuore del mondo capitalistico.
“La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo? Gli sforzi per prevenire una simile catastrofe pongono in ombra la ricerca delle sue cause potenziali nella società industriale contemporanea. Queste cause rimangono non identificate, non chiarite, non soggette ad attacchi del pubblico, poiché si trovano spinte in secondo piano dinanzi alla troppo ovvia minaccia dall’esterno – l’Ovest minacciato dall’Est, l’Est minacciato dall’Ovest. Egualmente ovvio è il bisogno di essere preparati, di vivere sull’orlo della guerra, di far fronte alla sfida. Ci si sottomette alla produzione in tempo di pace dei mezzi di distruzione, al perfezionamento dello spreco, ad essere educati per una difesa che deforma i difensori e ciò che essi difendono.” (p. 8).
Una società unidimensionale
La nostra è una società unidimensionale; il nostro pensiero è unidimensionale; occorre trovare un’alternativa. Il lettore, all’epoca era sorpreso: dal 1945, in Occidente, con alcune eccezioni (in Europa: Spagna e Portogallo; dal 1967 Grecia) gli Stati erano tutti liberal-democratici, tutti strutturati pluralisticamente, ogni governo aveva la propria opposizione; le istituzioni di cultura erano fondate, tutte, sulla tradizione del libero pensiero e del libero confronto; la stampa era libera; perché cercare un’alternativa al “migliore mondo possibile”?
Se l’uomo è unidimensionale, la sua dimensione unica era, appunto la libertà economica, non meno che
politica. Tuttavia, questo migliore mondo possibile generava qualche inquietudine: la guerra del trentottesimo parallelo nei primi anni Cinquanta, la guerra nel Viet-Nam, guerre in cui l’Occidente era l’aggressore; la politica economica del migliore mondo possibile tollerava il razzismo sudafricano, lo sfruttamento neo-coloniale a opera delle consociazioni finanziarie internazionali (le multinazionali, come si sarebbe detto, di lì a non molto), l’autoritarismo e la discriminazione nelle fabbriche e la diseguaglianza lavorativa e sociale delle donne.
Forse turbato da considerazioni come queste il lettore di allora iniziava la lettura, incoraggiato dallo stile chiaro dell’autore che le traduzioni hanno, tutte, messo in evidenza:
“L’unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull’orlo dell’annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la raison d’être di questa società ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa irrazionale” (p. 11).
Un’ingegneria di anime
La grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società data, condividendone l’irrazionalità: il consenso, apparentemente razionale è irrazionale e manipolato; la democrazia liberale è soltanto apparenza; rispetto alle democrazie popolari o alle dittature militari, questa apparenza è l’unica differenza. La società unidimensionale è capace di produrre e di distribuire una quantità mai vista di beni e di usare la scienza per impadronirsi delle coscienze. Ogni mutamento qualitativo di questo stato di cose viene represso senza usare la forza fisica, ma usando quella che Sergeij Ciakotin ha chiamato “ingegneria di anime”.
La società industriale avanzata funziona “come un sistema che determina a priori il prodotto dell’apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo” (p. 13), arrivando a dissolvere l’opposizione fra esistenza privata ed esistenza pubblica. Essa rappresenta un sistema di dominio sulla natura, non meno che sugli esseri umani e presenta una configurazione irrimediabilmente oligarchica. La razionalità tecnologica è razionalità politica non meno che economica e militare.
L’uomo a una dimensione oggi
In nove capitoli (Le nuove forme di controllo; La chiusura dell’universo politico; la conquista della coscienza infelice: la desublimazione repressiva; la chiusura dell’universo di discorso; il pensiero negativo; la sconfitta della logica della protesta; dal pensiero negativo al pensiero positivo. La razionalità tecnologica e la logica del dominio; il trionfo del pensiero positivo: la filosofia ad una dimensione, l’impegno storico della filosofia; la catastrofe della liberazione) e una conclusione viene articolata una analisi che fa il punto della situazione fino al 1964.
Altri tempi, si potrebbe dire. Ma sarebbe lecito dirlo soltanto per rilevare l’ampliamento e l’intensificazione della società a una dimensione negli ultimi sessant’anni. La chiusura dell’universo politico si vede nel rifiuto pratico, accanto dell’accoglimento a parole, di ogni limitazione della crescita; nel rifiuto pratico di mettere in discussione le politiche economiche neo-liberiste; nella cecità di fronte alla crisi climatica; nella indifferenza pratica di fronte al problema delle migrazioni; nel carattere intermittente della pace mondiale; nell’indifferenza all’urgenza di cambiare il paradigma dei nostri sistemi di formazione ancora basati su un’anacronistica separazione fra scienze “dure” e scienze “umane”; nella cieca fiducia nel “governo dell’algoritmo” e nell’ignoranza voluta degli effetti oligarchici che esso sta avendo e promette di avere in futuro.
L’uomo a una dimensione è dunque, un classico che, come tutti i classici, non ha finito e non finirà di avere qualche cosa da dire a noi, oggi e nel prossimo futuro.
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