Marc Augé (1935-2023), antropologo della contemporaneità
Ci ha lasciato all’età di 86 anni lo studioso dei “non luoghi” di circolazione, consumo e comunicazione e del vissuto delle popolazioni metropolitane. Allo sguardo di Augé non sfugge nemmeno la “perdita del futuro” che caratterizza la nostra epoca. Ma, diceva, “l’avventura umana è un’avventura, collettiva e comune”, su cui l’antropologia può darci uno sguardo critico.
L’antropologo culturale Marc Augé ci ha lasciato all’età di 86 anni, noto in Italia, tra gli altri numerosi lavori per il libro La gratuità (a cura di F. Nodari, Milano, Mimesis, 2018 sul quale ci si è soffermati nell’articolo Gratuità e coscienza ecologica in “.eco, educazione sostenibile”, settembre 2018).
Per chi non è antropologo culturale, l’opera di Marc Augé si inserisce in un filone problematico aperto, in Italia, negli anni Settanta del XX secolo, quando si cominciò a intravedere la possibilità di un approccio allo studio della contemporaneità in chiave antropologico-culturale e, poi, di una ripresa dello studio, in chiave antropologico-culturale dell’antichità greca e romana.
Rapporti di parentela come rapporti di produzione
Nel 1977 Maurice Godelier ha pubblicato Antropologia e marxismo portando l’attenzione su una constatazione: “i rapporti di parentela sono […] anche rapporti di produzione, ne costituiscono, cioè la struttura economica” (M. Godelier, Antropologia e marxismo, rist. tr. it. Milano, PGRECO, 2015, p. 11); un anno prima, Mario Vegetti (1937-2018) aveva suggerito un approccio analogo per lo studio della società antica (Marxismo e società antica, Milano, Feltrinelli, 1976) stimolando la riconsiderazione dell’antropologia della Grecia antica di Louis Gernet, vissuto tra il 1882 e il 1962 (Antropologia della Grecia antica, Milano, Mondadori 1993) e l’impostazione della “Scuola di Cambridge” con Jane Ellen Harrison (1850-1928), Gilbert Murray (1866-1957), F. M. Cornford (1874-1943) e A.B. Cook (1868-1952) e la pubblicazione di quella grande raccolta di studi edita da Boringhieri all’inizio degli anni Ottanta del XX secolo (Introduzione alle culture antiche) curata da Mario Vegetti; quasi coeva è la scoperta della possibilità di una antropologia culturale dell’economia politica, dopo la pubblicazione, nel 1974, di La grande trasformazione di Karl Polanyj (1886-1964) per i tipi di Einaudi, a cura di Alfredo Salsano (1939-2004).
Nuovi approcci allo studio dell’umanità
L’antropologia culturale cessava di essere connessa prevalentemente allo studio dei popoli senza scrittura e si apriva a divenire antropologia delle culture dotate di scrittura (fondamentale è stata, in questo periodo, la diffusione dei lavori su oralità e scrittura di Walter Ong e, per quanto concerne il mondo antico greco, di Eric Havelock, vissuto tra il 1903 e il 1988 (Dike. Le origini della coscienza, Bari, Laterza).
In questa nuova veste essa poteva svilupparsi come antropologia della contemporaneità, diversificata da quella “scienza delle società primitive” che veniva presentata nel noto manuale di J. Copains, S. Tornay, M. Godelier e C. Backès-Clément (Antropologia culturale, 1971, tr. it. Firenze, Sansoni, 1973), anche sulla base degli stimoli provenienti dal volume di Desmond Morris, La scimmia nuda (1967), tr. it. Milano, Bompiani, 1968, “studio zoologico sull’essere umano” e dell’antropologia filosofica di Arnold Gehlen (1904-1976), L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1978), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1983.
Eccessi di tempo, di spazio e di io
Marc Augé è ricordato, soprattutto, per la sua tematizzazione dei “non luoghi”, gli spazi anonimi di circolazione, consumo e comunicazione caratteristici dell’età contemporanea (che Augé denomina “surmodernité”, cfr. Nonluoghi, tr. it. Milano, Elèuthera, 2023); in questi luoghi anonimi di passaggio tende a svolgersi una vita caratterizzata da una difficoltà a pensare il tempo, segnata da una diffusione dei mezzi di trasporto rapido e dal considerarsi, da parte di ciascun individuo, un mondo a sé; uno sguardo, quello di Augé che ricorda da vicino lo sguardo di Georg Simmel (1858-1918) su quello che, solitamente si era considerato irrilevante o lo sguardo di Siegfried Kracauer (1889-1966) sui dettagli del quotidiano, così caratteristico nel suo noto saggio Gli impiegati (1930), tr. it. Torino, Einaudi, 1982. Attraverso l’apparentemente irrilevante viene in luce l’essenziale, la base stessa del quotidiano e delle nostre azioni nel quotidiano (l’eccesso di tempo, l’eccesso di spazio e l’eccesso di io che caratterizza la “surmodernité”).
Viaggiando in metro capisci il mondo
Dal vissuto dei popoli senza scrittura al vissuto delle popolazioni metropolitane, il passo sembra enorme e lo è certamente quanto all’“apertura d’obiettivo” della ricerca: lo studio delle interazioni casuali su di un mezzo di trasporto ci conduce presso la comprensione del nostro essere nel mondo sociale (Un etnologo nel metrò, tr. it. Milano, Elèuthera, 2023).
Ma c’è dell’altro in termini di interpretazione complessiva della cultura: in Il genio del paganesimo (tr. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1988) Augé focalizza la distinzione fra cristianesimo e paganesimo direttamente in termini di vissuto, di rapporto fra spirito e corpo (che il cristianesimo separa e contrappone e il paganesimo considera uniti), tra scienza e religione (che il cristianesimo contrappone e il paganesimo armonizza), tra natura e cultura (che il cristianesimo contrappone e il paganesimo considera unitariamente).
Diverse generazioni vivono in “bolle” separate
Allo sguardo di Augé non sfugge nemmeno la “perdita del futuro” che caratterizza la nostra epoca (un inopinato ritorno al paganesimo che considerava le utopie immagini valide per il teatro comico, come in Aristofane, oppure come soggetti romanzeschi, come in Le meraviglie al di là di Thule di Antonio Diogene e tendeva, con poche eccezioni, a vedere nel tempo un movimento circolare).
A differenza del paganesimo greco e romano, tuttavia, l’assenza del futuro crea, oggi, una situazione in cui la percezione del tempo rimuove la consapevolezza del passare del tempo e rende arduo il rapporto fra le diverse generazioni che vivono in “bolle” ciascuna separata dall’altra, come se il tempo non esistesse. L’antropologo, quindi, “è condannato a spostare il proprio sguardo da un eccesso simbolico verso il vuoto relazionale dell’individuo escluso o isolato” (L’antropologo e il mondo globale, tr. it. Milano, Cortina, 2014) e a constatare che i rapporti sono sempre meno rapporti tra soggetti in carne e ossa e sempre più rapporti tra immagini (cfr. Marc Augé, Saper toccare, tr. it. Milano, Mimesis, 2017).
L’antropologia come strumento di critica del presente in vista di un futuro diverso
Immagini che finiscono per non rinviare più ad alcunché di reale. Non diversamente scriveva Guy Débord nel 1967: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato da immagini” (La società dello spettacolo, tr. it. Milano, SugarCo, 1991, p. 86).
L’antropologia, così come l’ha praticata Augé, è uno strumento di critica del presente in vista di un futuro diverso, in nome di una convinzione: “l’avventura umana è in effetti un’avventura, collettiva e comune […] legata alla concezione dell’uomo generico, ma essa si gioca in ciascuna vita individuale” (Cfr. M. Augé, Nutrire l’umanità per salvare l’umano, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca, 2015, p. 22).
Il legame fra ciascuno e tutti è una delle poste in gioco più importanti per potere praticare e pensare un futuro in un’ora del mondo che non è tra le più serene.
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