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Il Greenwashing… è servito!

| Chiara Pedrocchi

Tempo di lettura: 4 minuti

Il Greenwashing… è servito!

Anche con le migliori intenzioni, capita a tutti di incappare e cascare nella trappola dei prodotti che si presentano come amici dell’ambiente e che invece, di green, hanno solo la confezione.

Il Marketing e la tecnica del Greenwashing

Il Greenwashing, spesso tradotto in italiano come ecologismo di facciata, è una tecnica di Marketing che colpisce i prodotti in commercio dei più svariati settori. Centrale, per esempio, nel mercato della moda, dove molte aziende promotrici della fast-fashion affiancano alle loro linee classiche una linea “eco” per dare al consumatore l’illusione di sostenibilità, il greenwashing colpisce anche e soprattutto i prodotti alimentari.

Non è inganno: è solo marketing, vale a dire la ricerca della tecnica migliore per rendere un prodotto o un servizio più appetibile per il target a cui è destinato. Con la crisi climatica che avanza a passi da gigante e l’affermarsi di una coscienza ambientalista più diffusa e marcata rispetto a pochi anni fa, le aziende hanno trovato un terreno estremamente fertile per la vendita dei propri prodotti.

Greenwashing e alimentazione

Per l’antropologo francese Marc Augé, i non luoghi sono tutti quegli spazi dove, in contrapposizione con la dimora, viene a mancare la creazione di un rapporto fra gli individui e gli spazi stessi. Sono spazi non identitari e non relazionali, e sono per esempio gli aeroporti, i mezzi di trasporto e i centri commerciali. È proprio in virtù di questa assenza di relazione che il consumatore si trova ad attraversare i supermercati frettolosamente, senza creare o cercare un rapporto tra il prodotto che sceglie e tanto meno con tutta la filiera di produzione che ha portato quel determinato prodotto in quello scaffale.

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È nella fretta di uscire dal supermercato e nella confusione di tante persone di passaggio lì come lui che il consumatore cade vittima del marketing. Diventa così molto semplice pensarsi sostenibili solo scegliendo una confezione verde oppure decorata con una trama che rimandi all’idea di natura. Lo stesso vale per le gigantesche scritte “bio”, “vegan” o “confezione riciclata”, per difendersi dalle quali bisogna sempre verificare la presenza di un’adeguata certificazione.

Non è tutto green ciò che è verde

Oltre al colore o alle scritte accattivanti ben in vista sulle confezioni che spesso contengono esattamente lo stesso prodotto della fase pre-greenwashing, ciò a cui bisogna fare attenzione è guardare il prodotto nella sua totalità, non focalizzandosi solo sul fatto che contenga o meno prodotti o derivati animali o sui suoi benefici sulla salute.

Due esempi su tutti: la soia e l’avocado. Nessuno mette in dubbio le ottime intenzioni di chi, piuttosto per esempio che una confezione di uova, predilige una confezione di burger di soia. Ma se si vuole fare attenzione all’impatto ambientale bisogna considerare, per esempio, anche il trasporto e numerosi altri elementi. La produzione di soia, infatti, richiede un utilizzo di acqua nettamente inferiore rispetto a quella della carne (servono 2.000 litri di acqua per produrre 1 kg di soia, contro gli almeno 10.000 per produrre 1 kg di manzo da allevamento intensivo), ma se la soia arriva dall’America Latina, ben diverso sarà il suo viaggio dal luogo di produzione al supermercato rispetto a quello delle uova prodotte in Italia. I burger, inoltre, sono spesso confezionati nella plastica, più difficile da smaltire rispetto alle confezioni di carta delle uova.

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Lo stesso vale per l’avocado: diventato di moda anche grazie alle sue proprietà nutrizionali, in pochi si sono chiesti cosa ci fosse dietro al suo costo elevato (un kg di questo frutto arriva facilmente a costare fino a 15 euro). In Italia, il consumo di avocado è passato dalle 3.600 tonnellate del 2007 alle oltre 13 mila del 2016 (+261%). Ma in paesi dove l’avocado cresce più facilmente, come Messico, Cile, Perù, Colombia, Repubblica Domenicana, California, Kenya, gli agricoltori vi hanno visto una buona possibilità di profitto, e hanno dunque alimentato la deforestazione in favore della coltivazione delle sue piante. Inoltre, si stima che per far crescere un singolo avocado siano necessari circa 70 litri d’acqua: 3 volte in più di quelli necessari per far crescere un’arancia. Considerando l’imballaggio per il trasporto e la CO2 consumata dai mezzi su cui sono caricati, si converrà che conviene decisamente di più rinunciare o limitare il consumo di questo frutto in favore di prodotti più sostenibili.

Sostenibilità e gusto: un esempio virtuoso

Per fortuna, per contrastare la crisi climatica anche a tavola sono nati numerosi progetti green per davvero, e non solo per marketing. Un esempio su tutti è quello dell’app TooGoodToGo, a cui aderiscono sempre più negozi e ristoranti e che consente di passare a ritirare la propria cassetta di alimenti che altrimenti verrebbero buttati via prima che il negozio chiuda, previa prenotazione. Già presente in 15 paesi d’Europa, negli Stati Uniti e in Canada, TooGoodToGo è un ottimo modello di progetto che unisce la sostenibilità al gusto.

Ricordiamo, comunque, che per essere completamente sostenibili la cosa migliore da fare è autoprodurre il più possibile il proprio cibo, o, qualora non sia possibile o nel caso di prodotti più elaborati, sarebbe sempre meglio cercare di acquistare prodotti locali e con certificazioni serie.

Scrive per noi

Chiara Pedrocchi
Laureata in triennale in Lettere Moderne all’Università di Siena e in magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Torino. Oltre che per .eco scrive per Scomodo e VeganOK, e in passato ha collaborato con Lo Sbuffo e ViaggiNews.com. Aspirante giornalista, si interessa di ambiente, diritti umani e sessualità.