Skip to main content

Davvero tutta colpa della burocrazia? Il confuso mosaico del Leviathan italiano

| FRANCESCO INGRAVALLE

Tempo di lettura: 9 minuti

Davvero tutta colpa della burocrazia? Il confuso mosaico del Leviathan italiano

Il recente lavoro di Sabino Cassese sulla crisi della burocrazia e i suoi rimedi va ad arricchire il non affollato panorama della storia della pubblica amministrazione italiana, oggi sottodimensionata e messa a dura prova da privatizzazione e delegificazione. L’argomento è di primaria importanza, perché si intreccia con la crescente disuguaglianza, le cui cause si annidano nell’intera storia italiana. La cultura amministrativa va ripensata così come tutti i nostri apparati di formazione, perché altrimenti il Paese non sta in piedi. E occorrerebbe un’opinione pubblica ecologista, politicamente forte e organizzata.

(In apertura, l’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II a Teano, inizia l’Unità d’Italia, ma il paese è sempre più disunito e disuguale) 

Si è constatato che un ostacolo, e non certo il minore, all’attuazione di una svolta ecologica è l’ostacolo burocratico; quindi, anche dall’opinione pubblica ecologicamente orientata si leva la critica alla “burocrazia”, in particolare – anche se non soltanto- italiana.

Naturalmente, è cosa diversa criticare la burocrazia e criticare il malfunzionamento della burocrazia. Cosa ancora diversa è stabilire storicamente quali siano le cause dell’esistenza della burocrazia e quali le cause dei suoi malfunzionamenti. Ancora diverso è questo discorso nel suo complesso, se il suo focus è un paese determinato, a esempio l’Italia.

Se la pubblicistica sulla politica italiana è vastissima, tra contributi scientifici e contributi di buon giornalismo, per quanto riguarda la storia dell’amministrazione italiana il panorama è meno affollato; si va da Fiorenzo Girotti, Amministrazioni pubbliche (Carocci, 2007) a Giliberto Capano, Le pubbliche amministrazioni in Italia (Il Mulino, 2011), a Stefano Sepe, Storia dell’amministrazione italiana (1861-2017) (Editoriale Scientifica, 2018), a Nunzio Mario Tritto, Storia contemporanea e della pubblica amministrazione italiana, Independent Published, 2022 a Guido Melis, Storia dell’amministrazione in Italia (Il Mulino, 2020), a Ciro Silvestro, Storia della pubblica amministrazione (Simone, 2020).

Il maggiore datore di lavoro italiano

A questo panorama si aggiunge il recente lavoro di Sabino Cassese, Amministrare la nazione. La crisi della burocrazia e i suoi rimedi (Mondadori, dicembre 2022).

Sabino Cassese non ha certamente bisogno di presentazioni, ma è il caso di ricordare, comunque, che non soltanto è stato docente presso numerosi atenei italiani e stranieri, ma che, attualmente, è professore alla School of Government della LUISS e alla Católica Global School of Law di Lisbona; Cassese, inoltre, ha lavorato presso l’ENI tra il 1958 e il 1962, come consulente alla programmazione quando ministro del bilancio era Antonio Giolitti (1963-1964); è stato Ministro alla Funzione Pubblica nel governo Ciampi e giudice della Corte Costituzionale, presidente del Eurogroup of Public Administration (1987-1991) ed è fondatore (2004) dell’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione (Roma).

Tra i suoi numerosi lavoro vanno ricordati, per il tema che qui ci interessa, Governare gli italiani (Il Mulino, 2014), La democrazia e i suoi limiti (Mondadori, 2017), Il buongoverno (Mondadori, 2020), Una volta il futuro era migliore (Solferino, 2021).

“Le pubbliche amministrazioni sono il più grande erogatore di servizi pubblici […]. Sono, di conseguenza, il maggiore datore di lavoro italiano: da esse dipendono circa tre milioni e trecentomila addetti.” Esse rappresentano uno dei tre poteri attribuiti allo Stato, il potere esecutivo, chiamato ad attuare le leggi del Parlamento. Dalla loro buona organizzazione dipendono il benessere dei cittadini e il successo dello Stato” (p.3).

Forte divario tra Nord e Sud

Viene ripercorso, rapidamente, il cammino della pubblica amministrazione italiana dall’unificazione a oggi alla luce di una domanda: quali sono le ragioni attuali della sua crisi.

Nei centosessantuno anni dall’Unità, il numero degli abitanti dell’Italia è quasi triplicato; il costo della politica per abitante, il costo delle Prefetture, le pensioni di invalidità, le Regioni e i Comuni hanno una spesa più alta nel Nord che nel Sud; il Sud ha perduto, nell’ultimo quinquennio, più di trecentomila abitanti; nel Sud l’abbandono scolastico è quasi il doppio di quello registrato nel Centro-Nord; un quarto dei cittadini paga l’80% di tutta l’imposta sul reddito delle persone fisiche e il 90% del gettito di questa imposta proviene da dipendenti e da pensionati; Se è vero che i tre quarti della popolazione risulta composta da proprietari di prime case e un terzo da proprietari di seconde case, è vero anche che il PIL procapite è fermo sostanzialmente da un quarto di secolo; va anche rilevato che l’Italia registra un rilevante tasso di evasione e di erosione fiscale (stimato in 200 miliardi di euro), un Paese in cui il costo del debito è maggiore della spesa per scuola, università, ricerca e sanità, con una percentuale bassa di occupati e alta di pensionati. La disuguaglianza avanza a grandi passi nel nostro paese, dunque, rendendo stridente il confronto fra la realtà italiana e il dettato costituzionale italiano.

Continuità amministrativa, radicale discontinuità politica

Le ragioni della progressiva disuguaglianza, evidentemente, si annidano nell’intera storia della nazione italiana. Storia che registra per lo meno un aspetto paradossale: la struttura amministrativa dello Stato italiano si è svolta all’insegna della continuità, mentre la sua storia costituzionale si è svolta all’insegna di momenti di radicale discontinuità politica (dal regime liberale monoclasse al regime liberale pluriclasse, al fascismo, alla liberal-democrazia) e istituzionale (dallo Statuto albertino alla Costituzione della Repubblica). Questa continuità spiega perché la struttura complessiva dello Stato italiano sia composta di “numerosi ed eterogenei materiali” (p. 10). Aggiungiamo che ogni uno-due anni l’Italia cambia capo del Governo, “mandando quindi sempre un novizio a Bruxelles” (p. 12), sicché in pochi Paesi come in Italia è vero il vecchio adagio “i governi passano, le burocrazie restano”. Di fatto, la pubblica amministrazione è il maggiore fattore di stabilità della compagine politica italiana, mentre il fattore “dinamico”, per non dire di instabilità è l’insieme dei fattori propriamente politici (dai quali dipende la formazione dei governi).

Cassese dixit

Secondo Cassese l’anomalo complesso storico-istituzionale italiano va ricondotto a tre cause.

  1. Alla prima causa non c’è rimedio: la modernità si è diffusa in Italia con tre secoli di ritardo e pesa come una cappa di piombo uno degli aspetti più gravi di questo ritardo, la separazione fra scienze naturali e scienze umane e la scarsa interdisciplinarietà di non pochi programmi di ricerca e dell’impostazione stessa della didattica a tutti i livelli dell’istruzione; siamo ancora fermi ai tempi del dibattito di Le due culture di Charles P. Snow (1962!!!).
  2. La seconda causa è ravvisata nel fatto che la nazione non ha individuato nello Stato un’“impresa collettiva” e che lo Stato non ha mai effettivamente dominato la complessità dei poteri pubblici moderni (e sempre meno è in grado di dominare poteri pubblici non statali di carattere globale).
  3. La terza causa va ricercata in un altro fatto, che si potrebbe considerare banale: non è stata realmente eliminata la distanza fisica fra Nord e Sud attraverso una rete di trasporti capillare ed efficiente (per fare l’esempio suggerito da Cassese: a Milano si giunge, in treno, da Roma in un tempo che è meno della metà del tempo necessario per arrivare, sempre in treno, da Roma a Cosenza).

La Costituzione non è stata tradotta in vita quotidiana

Manca all’Italia una coscienza scientifica ispirata a quello che Edgar Morin ha denominato “pensiero globale”, manca un apparato amministrativo e statale che sia effettivamente espressione ugualitaria della società civile (che traduca, dunque, la Costituzione in vita quotidiana), manca una idonea infrastruttura dei trasporti (perché “internet”, da solo, evidentemente, non può bastare).

La pubblica amministrazione è stata, nell’età giolittiana fattore di progresso; ma poi essa è divenuta sempre di più una forza frenante. Le cause sono individuate da Cassese nella “esondazione” del Parlamento che è diventato co-amministratore (ne è esempio il fatto che si sia ricorsi a una legge per chiudere la sede di un ministero a Roma, mentre bastava una mera decisione dirigenziale): il Parlamento si sovrappone alla Pubblica Amministrazione; nella “volatilità” dei governi che non è compensata dalla durata in carica dei ministri che, solitamente, sono destinati a cambiare dicastero; infine, quale terza causa, Cassese indica la scarsa motivazione di chi lavora nelle Pubbliche Amministrazioni, la cattiva gestione e distribuzione dei lavoratori negli apparati amministrativi, i limitati mezzi strumentali degli uffici, le sedi spesso obsolete, le dotazioni tecnologiche insufficienti.

A questi fattori si aggiunge il “magma normativo”: “Le norme di contenimento finanziario sono molte. I vicoli della contabilità di Stato sono moltissimi. Numerose le leggi condizionanti l’azione amministrativa. Di qui ritardi, come quelli nei pagamenti” (p. 25). Sotto il profilo organizzativo, la realtà della Pubblica Amministrazione italiana è frammentata, in seria difficoltà a governare le funzioni essenziali, soprattutto di fronte alla moltiplicazione degli organismi amministrativi globali e alla moltiplicazione degli interessi collettivi che attraversano il tessuto istituzionale italiano. Ne conseguono: iperlegalismo, eccesso di controlli inefficaci, fuga dei dirigenti pubblici dalle responsabilità e tendenza all’uso “difensivo” del diritto amministrativo. Il reclutamento dei pubblici dipendenti, spesso, non è selettivo, le carriere non premiano istruzione e competenza e sono, quindi, incapaci di attrarre i migliori.

Una riforma attesa da lungo tempo

Fin dal primo dopo-guerra si è parlato di “riforma della pubblica amministrazione”; ma, da ultimo, proprio le difficoltà amministrative emerse con la pandemia da Covid-19 hanno evidenziato il problema di sempre: l’assenza di anelli di connessione orizzontali (tra Comuni e Regioni) e verticali (tra Regioni e Comuni da un lato, Stato dall’altro).

Con l’incipiente digitalizzazione l’intero plesso di apparati pubblici va ripensato, non solo sul piano della regolamentazione, ma delle leggi che ne sono la base in modo non confliggente con la struttura algoritmica delle pratiche digitali (non è possibile tradurre semplicemente in codice binario il diritto amministrativo italiano e le procedure che su di esso si fondano; esso va ripensato sulla base della logica degli algoritmi).

L’emergenza climatica, il disastro ambientale si fa avanti anche in Italia, mettendo a nudo fragilità e debolezze di un paese certamente povero, ma che non ha speso là dove avrebbe dovuto spendere, proprio nella consapevolezza della propria fragilità gestionale, organizzativa, amministrativa.

Ripensare anche tutti i nostri apparati di formazione

Per fronteggiare l’emergenza ambientale nel suo complesso e nei suoi aspetti particolari c’è bisogna di una Pubblica Amministrazione funzionante, oltre che di governi stabili e intenzionati a confrontarsi con i problemi reali. I problemi italiani non sono soltanto politici; sono anche, a pari titolo e a pari peso, amministrativi. Non si potranno superare senza un ripensamento della cultura della burocrazia, senza un ripensamento di tutti i nostri apparati di formazione dai quali vengono sia la “classe burocratica” di domani sia la “classe politica” di domani.

Uno Stato sta in piedi senza burocrazia tanto poco quanto un corpo umano sta in piedi senza struttura scheletrica.

Il problema, scrive Cassese, non sta nel cercare quello che serve alla Pubblica Amministrazione per essere migliore, ma nel cercare quello di cui ha bisogno il Paese e che la Pubblica Amministrazione possa realisticamente assicurare.

Una serie di “passi indietro del pubblico potere”

Si possono sviluppare anche altre osservazioni in merito alla “questione burocratica.” Innanzitutto, si constata una serie di “passi indietro del pubblico potere”, soprattutto con le “leggi Bassanini” (L. 15 Marzo 1997, n. 59, L. 15 Maggio 1997, n. 127, L. 16 Giugno 1998, n. 191, L. 8 Marzo 1999 n. 50); nella prospettiva della realizzazione del massimo di “federalismo amministrativo” senza modificare la Costituzione; la L. 15 Marzo 1997 n. 59 ha avviato forti provvedimenti per privatizzare e per delegificare alcuni settori di pubblico interesse; ha sviluppato la trasformazione delle scuole in una rete di istituzioni dotate di autonomia funzionale (al pari delle Università e delle Camere di Commercio; la L. 15 Maggio 1997 n. 127 ha riorganizzato, in particolare le amministrazioni locali; la L. 16 Giugno 1998 n. 191, art. 4 ha introdotto disposizioni sul “telelavoro” esigendo un adattamento della contrattazione collettiva alle nuove esigenze; la L. 8 Marzo 1999 n. 50 ha creato agenzie indipendenti come l’Agenzia delle Entrate in luogo delle Intendenze di Finanza costituite nel 1869.

L’esigenza di controlli

In questa logica, il pubblico potere centrale si sposta quasi in una indefinita lontananza e il controllo da parte dell’apparato centrale si fa sempre più lieve. Anche laddove particolarmente urgente è l’esigenza di controlli, a esempio nel mondo del lavoro, attraverso gli Ispettori del Lavoro, le cronache ci mostrano un panorama desolante di carenza di controlli. Il “federalismo amministrativo” non deve essere un modo per consolidare potentati locali, contro i quali, va ricordato, è sorto quello che chiamiamo “Stato moderno” in Europa. Ne consegue una sorta di “rifeudalizzazione” del governo del territorio nazionale.

Con la L. 145 del 15 luglio 2002 è stata fissata la facoltà degli organi politici di scegliere tra soggetti già dipendenti della Pubblica Amministrazione, figure di vertice (dai segretari generali, ai capi di dipartimento, ai segretari comunali). Questo è, né più né meno, che privare il Parlamento di ogni opzione di controllo sulla pubblica amministrazione, per riservarla alla maggioranza uscita dalle urne. La breve durata media dei governi italiani ha rischiato di rendere instabili i vertici stessi della Pubblica Amministrazione con effetti disorganizzativi piuttosto noti a qualsiasi osservatore. Ne consegue un andamento incerto e ondivago a seconda delle maggioranze politiche che si prospettano di elezione in elezione.

Assumere (almeno) un milione di giovani

Infine, va ricordata una ricerca condotta da un team di docenti dell’Università di Torino e dell’Università del Piemonte Orientale secondo la quale è ragionevole la proposta di assumere un milione di giovani nella Pubblica Amministrazione, pena il fallimento totale o parziale di ogni riforma della Pubblica Amministrazione stessa (si veda innovazionepa.soiel.it, Come e perché assumere un milione di giovani, 15 Febbraio 2022). Ne consegue un affanno crescente della Pubblica Amministrazione nello svolgimento dei propri compiti.

Ogni politica – e le politiche ambientali, sia pur timide, non fanno eccezione – per essere attuata ha bisogno di stabilità amministrativa e politica; ma, a monte c’è il problema di una classe politica che non ha affrontato né con la dovuta tempestività, né con la dovuta serietà il “rischio ambientale” e non ci sono affatto segni, attualmente, che l’esecutivo sia intenzionato a invertire la tendenza. Tutt’altro.

Anche perché il problema non è costituito dagli esecutivi nazionali, di fronte alle grandi catene di investitori che non sono affatto attratti dalla green economy e rispetto ai quali i governi nazionali, da cui dipendono le Pubbliche Amministrazioni, sono se non sudditi, certamente assai dipendenti, nella loro scelte, da quelle catene di investitori che sostengono i diversi rami della produzione in Italia, in Europa e non solo.

L’Unione Europea stessa proprio perché non è uno Stato e non ha, concretamente, realmente “risorse proprie”, non è in grado di “smarcarsi” dalle dinamiche finanziarie più insidiose, né di configurarsi come una forza politica che opti praticamente per il risanamento ambientale senza incertezze e senza, pur comprensibili, ambiguità (data la sua “costituzione economica”; si veda il Green Deal).

La parola potrebbe passare, quindi, all’opinione pubblica; ma possiamo parlare di una opinione pubblica ecologista, politicamente forte e organizzata sul piano continentale (o, anche, solo sul piano nazionale)? No: siamo ancora ai tempi dei thinkthanks e dei movimenti giovanili politicamente non strutturati.

Scrive per noi

FRANCESCO INGRAVALLE
FRANCESCO INGRAVALLE