Alla ricerca dell’ordine mondiale. Alcune riletture
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La guerra è un complesso di azioni criminali, in cui l’essere umano è ridotto a mezzo, come esito, anche nella via civile, di una economia orientata al profitto. Dunque, lo sviluppo dei rapporti economici e commerciali non porta la pace e, infatti, tra XVI e XXI secolo è aumentato il militarismo. Il quadro sempre più instabile minaccia anche la biosfera. Occorrerebbe un’autorità mondiale capace di conciliare gli interessi di tutti, controllata, “dal basso”, da cittadini formati alle competenze necessarie per giudicare l’operato delle classi politiche: competenze umanistiche e competenze scientifiche.
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La guerra come problema
(Nell’immagine di apertura, un “camouflage”: il collettivo di artisti francesi Société Réaliste immagina un mondo libero da confini politici e culturali. Amalgamando le bandiere dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite, crea i nuovi emblemi di una comunità globale multicolore, unita nella diversità)
Che la guerra sia un complesso di azioni criminali, se si muove dall’insegnamento cristiano (nelle sue varianti confessionali) è ovvio. Analogamente, dal punto di vista umanistico, la guerra è un complesso di azioni criminali: lo ha argomentato Alex Confort (Potere e delinquenza. Saggio di psicologia sociale, (1950) tr. it. Milano, Elèuthera, 1996) in modo difficilmente oppugnabile da un punto di vista prossimo all’umanismo più radicale, l’umanismo anarchico.
Ma la persistenza della guerra nella storia della specie umana ha obbligato, lungo il corso del tempo, a sacralizzarla (prima dell’avvento del cristianesimo), a ricercare, poi, con strumenti teologici e giuridici, di distinguere fra guerra giusta e guerra ingiusta (con Francisco de Vitoria, con Hugo van Grooth) e a cercare di normare la guerra (e, soprattutto il trattamento dei prigionieri).
Si è tentata, infine, la strada della secolarizzazione della diagnosi cristiana della guerra con il saggio Per la pace perpetua di Immanuel Kant (1795) privandola del suo apparato teologico e ponendo al centro l’essere umano che, scrive Kant, dovrebbe essere sempre fine e mai mezzo, ma che, nella guerra si trova ridotto a mezzo delle scelte dei gabinetti ministeriali che assistono i sovrani, in qualità di combattente o di civile coinvolto, suo malgrado, nella guerra.
Un modello economico che promuove il consumo individuale
Si potrebbe osservare che, oggi, l’essere umano anche nella vita civile si trova ridotto a mezzo di produzione e di consumo in un modello economico che non è strutturato per promuovere la libertà individuale, ma il consumo individuale, il consumo di ciascun individuo.
L’essere umano ridotto a mezzo non è esito soltanto di una condizione estrema, straordinaria, come la guerra, ma l’esito di una economia orientata al profitto (profitto di cui, di norma, non si giovano i residenti del territorio che ha prodotto il profitto, ma investitori che, con il territorio in cui è stato prodotto il profitto, non hanno niente a che fare). Sono cose note, dopo le diagnosi dei filosofi della “Scuola di Francoforte”. In altri termini, la guerra è una delle opzioni di un sistema economico complesso, il nostro sistema economico.
Del resto, questo sistema economico innerva la politica; e non a caso Carl von Clausewitz ha scritto: “la guerra non è semplicemente un atto politico, ma un vero strumento politico, una continuazione dell’interscambio politico” (C. von Clausewitz, Della guerra, libro I, a cura di G. E. Rusconi, Torino, Einaudi, 2000, p. 38). Un atto politico. Ma la politica è “attività direttiva autonoma”, come ha scritto Max Weber (La politica come professione, 1919). Che cosa dirige, la politica? La vita dei popoli in un determinato territorio, per lo più in forma di Stato, attraverso leggi giudicate idonee, quindi, legittime. In che cosa consiste la vita dei popoli? Nella produzione di beni e nella loro commercializzazione, all’interno del territorio, come all’esterno dei suoi confini.
Un fenomeno economico e geoeconomico
Il quadro che, inizialmente, appare come meramente politico e geopolitico, si mostra, qui, come economico e geoeconomico. Le relazioni internazionali sono l’aspetto fenomenico delle relazioni economiche fra i territori. La guerra è una delle forme delle relazioni internazionali; se le relazioni internazionali sono primariamente economiche, lo è anche la guerra. Che non è mai soltanto una “cieca esplosione di violenza”; lo osservava Friedrich Engels contro Eugen Dühring: “la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla ‘potenza economica’, sull’’ordine economico’, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza” (F. Engels, Antidühring. La scienza sovvertita dal signor Dühring (1878, 1894), tr. it. di Giovanni De Caria, Milano, Lotta Comunista, 2003, p. 207).
Stando così le cose, non è dallo sviluppo dei rapporti economici e commerciali che è possibile aspettarsi la pace nei rapporti internazionali, nonostante le convinzioni manifestate da Montesquieu e da Kant in merito al “dolce commercio”. La contrattazione per lo scambio delle merci non necessariamente evita il ricorso alla forza; lo sviluppo dell’economia capitalistica, infatti, non coincide con la riduzione dei conflitti nella storia mondiale tra XVI e XXI secolo, ma coincide, come ha dimostrato Werner Sombart (Guerra e capitalismo, 1913, ed. it. a cura di Raffaella Iannone, Milano, Mimesis, 2015), con un forte sviluppo del militarismo. Il nesso fondamentale fra economia e guerra ha costituito il focus di una serie di riflessioni che si ripropongono qui, in forma necessariamente sintetica.
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Aspetti del problema
La prima messa a punto del problema in termini economico-politici si deve a Vladimir Ulianov Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916), nel corso della Prima Guerra mondiale. Già nel 1902 John Hobson (L’imperialismo, tr. it. di Luca Meldolesi e Nicoletta Stame, Milano, ISEDI, 1974) e Rudolf Hilferding nel 1910 (Il capitale finanziario, tr. it. di Vittorio Sermonti e Saverio Vertone, introduzione di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro, Milano, Mimesis, 2011) avevano gettato le prime basi per l’analisi del rapporto fra economia e guerra.
È, poi, Vladimir Ulianov Lenin a sviluppare l’analisi nel 1916, con il libro L’imperialismo fase suprema del capitalismo (tr. it. di Felice Platone, introduzione di Valentino Parlato, Roma, Editori Riuniti, 1971) nel quale si legge una osservazione importante: “Quando si tratta della politica coloniale dell’imperialismo capitalista deve notarsi che il capitale finanziario e la relativa politica internazionale, che si riduce alla lotta tra le grandi potenze per la ripartizione economica e politica del mondo, creano tutta una serie di forme transitorie della dipendenza statale” (p. 124); importante, soprattutto se alla parola “imperialismo” si sostituisce l’espressione, politicamente più corretta, “egemonia” (sempre finanziario-militare, in ogni caso). Perché, dovremmo dire a noi stessi, de te fabula narratur, ovviamente dopo aver riconosciuto il carattere imperialistico o egemonico della globalizzazione e la sua matrice economica.
Ricercare tutti i corresponsabili
Sicché il problema stesso della pace va visto sotto una luce diversa da quella giuridico-morale che va alla ricerca del “responsabile”, anziché ricercare tutti i corresponsabili. Spesso si è richiamato, in merito, un noto passo del filosofo cristiano Aurelio Agostino: “Quid sunt magna imperia, detracta iustitia, nisi magna latrocinia?” (De Civitate Dei IV, 4) che riconduce i rapporti politici a rapporti di forza – una volta che si prescinda dalla giustizia (presumibilmente: dalla giustizia divina, nella quale, peraltro, non tutti si riconoscevano e si riconoscono); e i rapporti di forza sono rapporti economici: il contratto commerciale e l’investimento finanziario sono soltanto due opzioni rispetto all’atto di pirateria, rispetto alla pura aggressione a scopo di rapina.
La “guerra” è soltanto la politica condotta con altri mezzi; e la politica è la gestione delle dinamiche economiche all’interno degli Stati e nei rapporti fra Stati. In altri termini: la guerra è sempre possibile, la pace è sempre possibile, ma sono le concrete circostanze a stabilire quando ciascuna possibilità si tradurrà in realtà. Alcune teorizzazioni sono particolarmente importanti proprio a questo riguardo – senza niente togliere alle sistematiche trattazioni polemologiche – e su di esse conviene soffermarsi non potendo rendere ragione di tutte le teorizzazioni in merito. Sia Hobson, sia Hilferding, sia Lenin costituiscono un punto di svolta analitico.
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Alcune proposte
Il “secolo breve” ha visto tre guerre mondiali: la guerra del 1914-1918, la guerra del 1939-1945, la “guerra fredda” (1947-1991); ha visto l’intensificazione degli attacchi umani alla biosfera; ha visto lo sviluppo delle armi di distruzione di massa. Ma ha visto anche il sorgere di ben due tentativi di governare pacificamente le relazioni internazionali: la Società delle Nazioni (1920) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite (1944). Due tentativi che non sono riusciti nell’intento programmatico che li aveva fatti intraprendere.
Ma non si è tentato soltanto praticamente di affrontare il problema. Il XX secolo è anche il secolo dell’incremento delle teorie sulla pace; in particolare, due importanti scritti sono stati dedicati alla critica della Società delle Nazioni: International Planning for Freedom (1942 tr. it. in Id., L’utopia realmente possibile, Milano, Mimesis, 2014) del filosofo e sociologo austriaco Otto Neurath e A Working Peace System (1943) di David Mitrany (Le basi pratiche della pace, tr. it in S. Parodi, La teoria funzionalista di David Mitrany, Firenze, C.E.T. 2013); a essi si aggiunge il breve saggio di Alfred Baeumler (1887-1968), Weltdemokratie und Nationalsozialismus (“Internationale Zeitschrift für Erziehung”, 1942).
La necessità di un governo mondiale
Neurath sostiene che è necessario un governo mondiale della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale se si vuole disinnescare la “bomba a orologeria” della guerra mondiale, sempre pronta a esplodere: occorre liberare tutti gli esseri umani dal bisogno. La disuguaglianza nell’accesso alle opportunità economiche e sociali scatena, infatti, la guerra di classe negli Stati e la guerra fra gli Stati. Occorre, quindi, una pianificazione internazionale che crei istituzioni al di sopra degli Stati (Overlapping Institutions), in grado di distribuire la ricchezza mondiale secondo i bisogni, dato che tutti gli Stati, pur in maniera diversa, contribuiscono alla ricchezza mondiale.
Mitrany scrive: “La Società delle Nazioni fu insufficiente perché non poté favorire quel processo di continuo riaggiustamento e consolidamento [dei confini fra gli Stati] che viene indicato come “revisionismo con mezzi pacifici” (p. 9); e non poté farlo perché la Società delle Nazioni non ha potuto essere di più, né far di più di quel che i suoi membri dirigenti erano disposti a essere ed a fare” (p. 13). La Società delle Nazioni era lo strumento dei vincitori della Prima Guerra mondiale, infatti, uno strumento che doveva imporre ai vinti la propria pace, una sorta di pax romana, l’altra faccia della politica di potenza. Qual è il rimedio al costante rischio di guerra che rimarrà costante, prevedibilmente anche dopo la fine dell’attuale guerra (siamo nel 1942-1943)? Integrare interessi economici attraverso l’integrazione dei diversi mercati, settore merceologico per settore merceologico.
Integrare gli interessi per non impugnare le armi
L’integrazione di un settore commerciale può produrre – per effetto spill-over, come scriverà il politologo Ernst B. Haas in Beyond the Nation-State nel 1964 – l’integrazione di altri settori, sino a realizzare un’integrazione che noi, oggi, potremmo denominare “globale”. Se si integrano gli interessi, viene a ridursi fin quasi a zero la tentazione di impugnare le armi per risolvere le eventuali controversie.
Dunque: la pianificazione internazionale della produzione e della distribuzione delle risorse, l’integrazione dei settori produttivi e dei mercati come strumenti per la creazione di relazioni pacifiche tra gli Stati: queste le indicazioni di Neurath e di Mitrany.
Può sorprendere che anche da parte nazionalsocialista si sia intrapresa una teorizzazione sui generis riguardo alla pace. Alfred Baeumler, fu una figura di primo piano nel contesto ideologico nazionalsocialista; egli muove dalla teoria nietzschiana della vita come volontà di potenza e della politica internazionale come lotta per la potenza; il grande errore commesso dagli ideatori della Società delle Nazioni è di avere trascurato che soltanto l’equilibrio di potenza genera la pace, un equilibrio che deve essere gestito da un “paese-guida” che detiene la potenza suprema; il capitalismo finanziario agisce come agente perturbatore degli equilibri perché esso tende al raggiungimento del profitto assoluto, cioè tende non all’equilibrio, ma all’infinito e genera continuo disordine nei rapporti fra gli Stati. Curiosamente, questa teoria, così legata al pensiero di Nietzsche e alla teoria dello “spazio vitale” di Karl Haushofer, continua la teoria della pace come equilibrio di potenza formalizzata, al tempo del Congresso di Vienna, da Clemens von Metternich, a proposito degli equilibri intra-europei e anticipa, in certo qual modo, la teoria dell’equilibrio sostenuta, in modo più o meno indiretto, a suo tempo, da Henry Kissinger, Segretario di Stato statunitense dal 1968 al 1977 durante le presidenze Nixon e Ford (Ordine mondiale, tr. it. di T. Cannillo, Milano, Mondadori, 2017).
Equilibrio del terrore atomico
Nel corso della “Guerra fredda”, dopo la fine della “Guerra di Corea”, dopo la soluzione della “crisi di Suez” si apre lo spazio per la cosiddetta pratica e teoria della “coesistenza pacifica” fra USA e URSS ampiamente documentata da Nikita S. Krusciov (Coesistenza e Vertice, tr. it. di Giovanni Orsi, Milano, Il Saggiatore, 1960) per la parte russa e da John F. Kennedy (Strategia di pace, Milano, Pigreco, 2013); la pratica della coesistenza pacifica è fondata sull’equilibrio del terrore atomico e sulle “guerre per procura” (la guerra di Corea, la guerra del Vietnam, il conflitto palestinese-israeliano, per fare soltanto tre esempi).
Nel giugno-luglio1956 György Lukàcs, prestigioso teorico del socialismo scientifico, schierato sulle posizioni della rivolta antisovietica ungherese del 23 ottobre-11 novembre, ha pubblicato un ampio saggio intitolato La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi (tr. it. di Giorgio Dolfini, Milano, Feltrinelli, 1957) che fornisce la teoria – di parte socialista – della “coesistenza pacifica”.
Oggi ci troviamo di fronte al conflitto tra due mondi, il mondo capitalista e il mondo socialista, ma una simile contraddizione non significa che sia all’ordine del giorno il problema della transizione al socialismo; il problema attuale è “pace e guerra, contrastare la guerra, il problema della coesistenza”; soltanto i settari (in ambito socialista) e i reazionari (in ambito capitalista) vogliono lo “scontro decisivo”, immediato fra socialismo e capitalismo. Soltanto dalla dialettica interna al proprio sviluppo il mondo capitalista potrà essere condotto al socialismo, anche grazie al fatto che cristianesimo e socialismo, in Occidente, si stanno progressivamente avvicinando.
Passano gli anni, il sistema sovietico implode
Passano gli anni Sessanta. Passano gli anni Settanta. Passano gli anni Ottanta. Il sistema socialista sovietico implode. E il mercato, l’integrazione fra i diversi mercati sembra poter pacificare il mondo. Sembra addirittura, che la forma-Stato stia per scomparire (Kenichi Ohmae, La fine dello Statonazione e la crescita delle economie regionali, tr. it. Milano, Baldini &Castoldi Dalai, 1997); ma, come è stato osservato da Serge Latouche (L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. di Alfredo Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1992), ci si trovava di fronte a un processo di “occidentalizzazione del mondo” e di espansione del capitalismo, tutt’altro che indolore (se ne vedeva il riflesso, peraltro, nella ampia teorizzazione sviluppata, nel 1996, da Samuel P. Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, tr. it. Milano, Garzanti, 2001)).
Lo sottolinea Antonio Varsori (Le relazioni internazionali dopo la guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 2022): dal 2001 al 2008, dopo l’11 settembre i clamori di guerra continuano e, tra il 2009 e il 2022 ritorna l’idea tipica delle epoche di tensione internazionale (dal profondo del XIX secolo) di un “concerto delle potenze” in grado di governare le spinte polemogene.
Un ordine neoliberale, assai instabile
Si potrebbe aggiungere che le dinamiche dell’economia capitalistica, in versione occidentale (USA e Federazione Russa) e orientale (Cina) hanno la meglio sulle illusioni – fino a ieri assai diffusi – circa l’integrazione dei mercati come fattore di pace e come strumento di lotta alla povertà (lo osserva, già nel 2013, Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti.” Falso!, Roma-Bari, Laterza, 2013).
La situazione attuale non è troppo diversa da quella denunciata da Neurath nel 1942. Se non peggiorata: lo rileva Vittorio Emanuele Parsi (Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Bologna, Il Mulino, 2018): a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, l’ordine internazionale liberale, fondato sulla coesistenza pacifica è stato progressivamente sostituito dall’ordine, assai instabile, neoliberale. L’ordine precedente era caratterizzato da una stabilità di base e da guerre per procura oltre che dalla presenza di armi di distruzione di massa; l’ordine neoliberale è caratterizzato dalla instabilità di base e da guerre per procura, oltre che dalla presenza di armi di distruzione di massa.
L’economia capitalistica sta distruggendo la biosfera
Non basta: lo sviluppo dell’economia capitalistica sta distruggendo la biosfera; scrive Naomi Klein che i nostri giovani “sanno fin troppo bene che la sesta estinzione di massa non è l’unica crisi che hanno ereditato. Stanno anche crescendo tra le macerie del fondamentalismo liberista, dove i sogni di un infinito aumento del livello di vita hanno ceduto il posto all’austerità rampante e all’insicurezza economica. E le tecnoutopie, che immaginavano un futuro inebriante fatto di connessione e di comunità senza limiti, si sono tramutate, si sono tramutate nella dipendenza dagli algoritmi dell’invidia, della sorveglianza aziendale illimitata e della misoginia e del suprematismo bianco online in grande ascesa.” (Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima, tr. it. di Giancarlo Carlotti, Milano, Feltrinelli, 2019, pp. 58-59).
Questo è un quadro dell’Antropocene, attraversato, come il periodo che l’ha preceduto, dalla guerra che, ora si alimenta anche della crisi climatica, come della miseria e dello sradicamento dei popoli dai loro abituali territori.
Lo sviluppo capitalistico scatenato ha deformato la socialità umana, continuando a rendere conflittuali i rapporti fra i popoli rendendo addirittura, dal XX secolo, più distruttiva la guerra e intaccando la biosfera.
Forse la proposta maggiormente idonea a impostare la soluzione dei problemi che fanno cerchio attorno a noi è quella formulata da Neurath. A condizione che le “autorità sovrapposte” agli Stati per la distribuzione delle ricchezze prodotte siano controllate dal basso, per evitare gli effetti perversi della “legge ferrea dell’oligarchia” teorizzata da Roberto Michels all’inizio degli anni Dieci del XX secolo. Ma il basso deve essere formato alle competenze necessarie per giudicare l’operato delle classi politiche: competenze umanistiche e competenze scientifiche.
Fantapolitica o esigenza di una politica razionale per l’essere umano e per il suo ambiente?
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