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59 anni dal disastro del Vajont: cosa abbiamo imparato?

| Chiara Pedrocchi

Tempo di lettura: 3 minuti

59 anni dal disastro del Vajont: cosa abbiamo imparato?

Dalla diga del Gleno (1923) al disastro del Vajont (di cui il 9 ottobre ricorre l’anniversario), passando per la diga del Molare (1935) e molti altri lutti causati da superficialità, presunzione e avidità, la storia italiana è costellata di lutti. Nel secolo scorso vari sono stati i disastri e migliaia le vittime causate dal crollo di dighe o da incidenti ad esse correlate che, a posteriori, possiamo definire prevedibili ed evitabili. Abbiamo imparato la lezione?

Mentre le bollette continuano ad aumentare in modo esponenziale, si fa un gran discutere di quale sia la soluzione migliore per fronteggiare la crisi energetica in corso. Sicuramente le energie rinnovabili costituiscono una risorsa preziosissima, tuttavia non bisogna dimenticarne i limiti, e il fatto che l’uomo dovrebbe smettere di credersi padrone di tutto quello che la natura ha da offrire: questa infatti, talvolta, si ribella, e lo fa in modo neanche troppo imprevedibile. Altre volte, invece, la pretesa e la fretta di ricavarne grandi quantità di energia rischia di far fare male i calcoli e i progetti a chi di dovere. Quando ci si rende conto dell’errore, però, spesso è troppo tardi: il disastro del Vajont, di questo, non è che un tragico esempio.

59 anni fa il disastro, evitabile, del Vajont

Era il 9 ottobre 1963 quando sul confine tra il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto si verificò il cosiddetto disastro del Vajont, che provocò la morte di oltre 2000 persone. Ciò che avvenne fu una frana del monte Toc, che precipitò a una velocità di 100 km/h nel bacino d’acqua della diga causando un’onda alta 250 metri, una sorta di tsunami, che superò la diga e distrusse completamente il paese di Longarone, danneggiando anche i centri abitati Casso ed Erto.

disastro del vajont
La diga del Vajont prima del drammatico evento

Si poteva evitare questo avvenimento? Purtroppo, assolutamente sì: persino le Nazioni Unite, nel 2008, definirono quello del Vajont “un caso esemplare di disastro evitabile. Sebbene, a differenza che nel contesto di altri disastri che citeremo a breve, l’evento non fu provocato dal crollo della diga, infatti, un altro fu l’errore che causò la gigantesca onda. Il progetto della diga era impeccabile, ma nel realizzarlo non si tenne conto della composizione della montagna, costituita, sotto lo strato calcareo, da un sottile strato di argilla. Quest’ultima è un materiale impermeabile, che a causa delle infiltrazioni dovute alla presenza del bacino di acqua causò la frana del monte Toc.

L’aggravante consiste nel fatto che negli anni precedenti c’erano già state due frane di entità inferiore, che avrebbero dovuto mettere in guardia rispetto al pericolo di un disastro imminente, e nella montagna si erano già palesate delle grosse crepe: il progetto, però, era troppo massiccio perché i lavori venissero interrotti.

Il Vajont e le altre catastrofi in Italia

disastro dl Vajont
Il disastro del Vajont

Purtroppo, il disastro del Vajont non è l’unico di questo tipo a essersi verificato in Italia negli ultimi 100 anni: l’anno prossimo cadrà il centesimo anniversario dal crollo della diga del Gleno, in provincia di Bergamo, avvenuto il 1° dicembre 1923; il 13 agosto 1935 crollò lo sbarramento secondario della diga del Molare, in provincia di Alessandria; infine, ci fu il disastro della Val di Stava, che si verificò in Trentino nel 1985 causando 268 vittime. Un testo utile all’approfondimento delle cause e delle testimonianze delle catastrofi elencate è il libro “Dal Molare al Vajont: storie di dighe”, del fisico Giorgio Temporelli (Erga, 2011).

Non solo storia: prevenire i disastri è meglio che ripararne i danni

Parlare a posteriori di prevedibilità degli eventi naturali significa vincere facile: in tanti anni, infatti, è stato possibile approfondire analisi e studi dettati proprio dal modo in cui gli eventi si sono verificati. Tuttavia, l’insegnamento prezioso che si può trarre dai casi elencati è quello di prestare più attenzione agli equilibri naturali, accantonando l’idea di sfruttare la natura in favore di un mutuo ascolto per cui l’uomo approfitta dell’energia offerta dall’ambiente naturale preservando, però, la ricchezza del territorio senza credersene padrone.

Una risorsa utile, a questo proposito, può essere l’Atlante Italiano dei Conflitti Ambientali, che grazie al contributo di una lunga lista di studiosi e istituti si occupa di mappare le criticità presenti sul territorio. Sarebbe auspicabile, in futuro, che chi si occupa di progettare le grandi opere e di approvarle faccia ampio uso di questa tipologia di strumenti e approfondite indagini circa le condizioni dei territori, perché eventi come quelli descritti, causati da errori umani, non accadano più.

Scrive per noi

Chiara Pedrocchi
Chiara Pedrocchi
Laureata in triennale in Lettere Moderne all’Università di Siena e in magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Torino. Oltre che per .eco scrive per Scomodo e VeganOK, e in passato ha collaborato con Lo Sbuffo e ViaggiNews.com. Aspirante giornalista, si interessa di ambiente, diritti umani e sessualità.