DaD, DDI oggi. E domani? Qual è la scuola di domani?
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La pandemia ha drammaticamente posto in risalto annose criticità della scuola italiana. Occorre un progetto e ogni modalità didattica, vecchia o nuova che sia, DaD o DDI dovrà riferirsi a saldi principi pedagogici. Ricerca, sperimentazione, monitoraggio sono necessarie anche per la didattica distanza, che come spiega un recente libro, se fatta bene può servire e divertire.
Bisogna viverla la scuola per poterne parlare, bisogna sperimentare sulla propria pelle i suoi problemi e le dinamiche quotidiane, bisogna conoscere in prima persona gli intricati percorsi burocratici che la investono per poter ancora decidere di essa, bisogna guardarli negli occhi gli studenti per potersi occupare di loro prima di consegnare indicazioni coerenti, capaci di coniugare i bisogni formativi e affettivi con quelli sociali e politici (da polis).
La scuola è vita, è respiro di chi sta imparando a esistere in una delle fasi più delicate della vita: Infanzia e Adolescenza. Come adulti educanti, e lo siamo tutti indistintamente e a ogni livello, non possiamo permetterci errori. Ne va del diritto al riconoscimento della dignità umana, ne va del futuro che consegneremo ai giovani. Nella scuola sono molti i professionisti che operano sulla base di un’etica della responsabilità, della disponibilità, della comprensione e, mentre si disquisisce di qua e di là, spesso a vuoto, si lavora nel tentativo di garantire il diritto alla scuola. Inutile dire che occorrono coralità d’intenti e un sentire comune.
Tecnici privi di formazione pedagogica
Quale scuola vogliamo per domani? La pandemia verrà sconfitta, certo, ma l’esperienza di questi mesi avrà lasciato tracce, avrà acceso “lampadine” cognitive e intellettuali, avrà convinto alcuni tecnici, privi di qualsivoglia formazione pedagogica, che la DaD sarà l’unico e il miglior modo di fare scuola. Cosicché tutta la letteratura pedagogica sul valore della relazione umana e della comunicazione educativa verrà probabilmente superata come “cosa d’altri tempi”. Sia chiaro, non ci si può sottrarre al progresso, né all’avanzamento delle nuove tecnologie. Piuttosto il timore nasce dal rischio di un progressivo indebolimento del pensiero riflessivo, da una perdita graduale di autonomia che può condurre verso un nichilismo esistenziale.
La nostra società si fonda ormai su un sapere frammentato, raccolto a spizzichi, quasi alla spicciolata, qua e là su Google, sui social in generale e la difficoltà a riconoscere l’affidabilità dell’informazione è sempre più evidente soprattutto tra i giovani, come ha ben documentato il sociologo Edgar Morin. Ma sappiamo bene che il processo di costruzione della conoscenza individuale è generato da esperienze sociali condivise (Vygotskij), quindi l’utilizzo delle tecnologie, privato del pensiero critico, della passione verso la ricerca del sapere e della conoscenza, della capacità di riflessione, potrebbe presentare il rischio di un totale asservimento a ciò che ha solo la parvenza di progresso.
L’opportunismo dei meno consapevoli
La pandemia non offre né certezze, né stabilità. Siamo in balìa di DPCM e di scelte contingenziali di cui, a volte, a torto o a ragione, si fatica a coglierne la logica e la coerenza. Scuole aperte, scuole chiuse, DaD, DDI. Certamente tutto ciò non giova ai nostri giovani studenti, molti dei quali hanno perfettamente compreso che è a rischio uno dei loro diritti fondamentali: quello all’istruzione. Tanti hanno protestato, pacificamente, hanno invocato l’attenzione dei media e delle istituzioni. Ma ce ne sono altri che sono meno consapevoli e cavalcano l’onda elaborando creative strategie per sottrarsi alle lezioni o alle interrogazioni, giovani che non abbiamo saputo appassionare o semplicemente motivare, che approfittano della riapertura dei grandi magazzini per bighellonare oppure trascorrere il proprio tempo al computer, per giocare o navigare senza meta. Passivi, o tristi, o soli, o arrabbiati, o semplicemente “rimasti indietro”. Sono le intelligenze e i talenti che avremo disperso.
Statistiche preoccupanti
Infatti, le statistiche hanno fornito cifre molto preoccupanti rispetto all’aumento della dispersione scolastica, delle situazioni di disagio psicologico, della crescita delle difficoltà di apprendimento. Abbiamo ascoltato le drammatiche testimonianze di genitori di alunni diversabili che si sono sentiti abbandonati e soli e che hanno denunciato paurose regressioni cognitive nei loro figli. Siamo nell’anticamera del cosiddetto “blocco dell’ascensore sociale”.
La pandemia, in questi mesi, ha drammaticamente posto in risalto annose criticità della scuola italiana, per troppo tempo eluse dai governi che si sono succeduti: classi numerose, spazi inadeguati e strutture spesso fatiscenti, docenti poco tecnologici o docenti poco umanistici, totale delega educativa tra scuola e famiglia, scarso riconoscimento del ruolo socioeducativo della professione docente. Tuttavia, un tacito e condiviso codice etico muove da sempre ciascun insegnante che, per vocazione o spiccato senso del dovere, ha cercato sempre di sopperire alle carenze. Il desiderio di creare condizioni di benessere negli alunni ha sempre prevalso, almeno nella maggioranza dei casi, in attesa che le istituzioni prendessero consapevolezza che la scuola è il cuore pulsante di un Paese.
Farsi guidate da un’etica della responsabilità
C’è da augurarsi che la scuola della DaD non rappresenti la prassi assoluta in un prossimo futuro, in nome di un improbabile efficientismo. Il pensiero richiede tempo, spazio, incontro, dialogo, contatto, Volto. Cose che uno schermo non può garantire, se non in minima parte e in casi eccezionali (assenze prolungate, ricoveri ospedalieri…). A fronte di una crisi epocale dobbiamo chiederci con spirito etico qual è la scuola che vogliamo e che possiamo ricostruire. Occorre un progetto non un rattoppo e ogni modalità didattica, vecchia o nuova che sia, DaD o DDI dovrà riferirsi a saldi principi pedagogici, alla ricerca continua, al monitoraggio, alla verifica dei risultati, alla valutazione costante per integrare e/o modificare, senza perdere mai di vista la finalità della scuola, ovvero la triade complessa: l’educazione, la formazione, l’istruzione. È un dovere degli adulti educanti assicurare un diritto costituzionale e la salvaguardia dell’istruzione pubblica.
Pertanto, al momento, vista la situazione, se DaD deve essere, che almeno sia fatta al meglio possibile nell’ottica di un’etica della responsabilità.
La Dad funziona, se sai come farla
Tra le molteplici proposte editoriali di questo periodo, sembra particolarmente utile il libro di Luca Toselli, docente, studioso e ricercatore dei nuovi media dalle prime teledidattiche universitarie e televisive degli anni Novanta, La Didattica a Distanza funziona, se sai come farla. Con uno stile leggero e un linguaggio piano, l’autore afferma che durante la pandemia la DaD ha rappresentato per lui «una sponda amica, alleata nell’irrinunciabile bisogno di relazione umana, non fisica ma capace, comunque, di dare senso al nostro quotidiano, diventato triste e pesante» (pag. 9). Che cosa avremmo potuto fare altrimenti? Così, anziché rimarcare mancanze e difetti della DaD, l’autore ne mette in luce le potenzialità e ce la porge come efficace risorsa per una società educante in trasformazione. Il suo libro è il racconto di un viaggio pedagogico dove i protagonisti sono alunne/i, docenti e famiglie, tutti sulla stessa barca, come si suole dire, pur nell’asimmetria dei ruoli. Come un entusiasta viaggiatore, Luca Toselli ricostruisce le tappe del suo percorso di docente che ha praticato convintamente e con piacere la DaD, ne illustra mezzi e strumenti, modalità e regole di svolgimento, risposte possibili alle problematicità di volta in volta emergenti. Insomma, invita al viaggio offrendoci una guida e lasciando aperta la finestra ad altre possibilità creative.
Una tecnologia umanizzata
Il suo libro si legge come un libro di tecnologia umanizzata, un aspetto particolarmente apprezzabile. L’autore evidenzia come l’accompagnamento costante dell’adulto, l’esempio che si tramuta in transfert educativo siano elementi imprescindibili anche nella DaD.
D’altra parte, Toselli è ben consapevole delle difficoltà dei nostri ragazzi a mostrarsi in tutta la loro realtà: appartamenti piccoli, fratelli da seguire, una quotidianità che può stare stretta. E allora suggerisce adeguate strategie per tutelare la riservatezza e il proprio spazio, ma anche per imparare ad aver cura «del frame che rivela di noi spesso più delle espressioni del nostro viso» (pag. 76) e ci aiuta a creare «la scenografia della propria privacy» (pag. 78), proponendo peraltro un’interessante riflessione e argomentazione sul concetto stesso di privacy nel nostro tempo. L’autore si dichiara convinto che la DaD possa rappresentare un valido mezzo per sopperire anche al bisogno di relazione, di sguardo, di volto, quando il fisicamente presente non è possibile ma, solo se sai come farla.
Divertirsi sperimentando
Sono inoltre molto interessanti le sue considerazioni e le sue proposte operative relativamente a temi pedagogici complessi e sui quali il dibattito e la ricerca sono ad oggi in atto, come per esempio: la valutazione degli alunni, la formazione dei docenti all’utilizzo di una pedagogia della domanda (le domande capovolte).
Ciò che colpisce, pagina dopo pagina, è lo spirito con il quale l’autore ha praticato la Didattica a Distanza. Un viaggio di responsabilità e conoscenza, strategie didattiche poliedriche e dialogo, sperimentazioni e divertimento. A pensarci bene “divertire” deriva dal latino de-verto, che letteralmente significa cambiare strada per intraprenderne una nuova. È un verbo di movimento, perché bisogna avere il coraggio di abbandonare la propria postazione per dirigersi in un luogo nuovo (M. Balzano, 2019).
Se DaD dovrà essere, proviamoci dunque, con un sorriso, con la voglia di sperimentare il nuovo, con il desiderio di farsi domande, con la curiosità della scoperta ma, soprattutto con l’intento di non lasciare indietro nessuno dei nostri alunni, proprio come fa l’autore che «nella scuola ribaltata dal lockdown – scrive- noi siamo stati bene: liberi finalmente di progettarci, di parlarci e di ascoltarci…Mai così distanti, mai così vicini» (pag. 13). Famiglie comprese. Ma ricordiamoci che ogni sperimentazione necessita di un processo valutativo condotto sulla base di principi pedagogici e scientifici.
Ricerca, sperimentazione, monitoraggio
Toselli non nega di avere incontrato difficoltà e le riporta fedelmente nel testo. Che siano problemi tecnici, o familiari, o emotivi, o affettivi, secondo l’autore è fondamentale che un insegnante (allenatore, o attivatore, o animatore – pag. 73) sia capace di ascoltare e di osservare, anche attraverso lo schermo. Ma per far questo occorre un’alta formazione pedagogica. Se la DaD sembra essere per Luca Toselli «un’auspicabile alleata della didattica in presenza» perché è un tempo nuovo, altro, da non vivere come un rimedio contingenziale, bensì come pratica pedagogica, è anche vero che essa va accolta e utilizzata come metodologia che sia risultato di ricerca, di formazione e di studio, di acquisizione di abilità specifiche.
Auspichiamo tutti che la scuola in presenza resti “la scuola”: una parola bellissima, capace di scrivere una buona e significativa parte delle nostre biografie. Certo, essa dovrà rinnovare il proprio abito, ma senza disperdere il prezioso significato originario di “scholé” pur con l’apertura al nuovo. È necessario provare e mettersi in gioco, nella speranza che il vociare degli alunni, i corridoi delle scuole brulicanti di vita, tornino presto a essere realtà: questo è scuola! Tuttavia, se DaD deve essere, almeno che sia fatta bene e in vista di una sua sistematizzazione o di integrazione alla didattica di ieri, auspichiamo l’avvio di un processo di ricerca, sperimentazione, monitoraggio, verifica e valutazione dei risultati. Nulla va lasciato al caso. L’Educazione è una cosa seria che richiede basi di scientificità pedagogica e non ha un semplice ruolo strumentale. Essa è «il ritmo costruttivo della vita» stessa (Montessori).
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- Luisa Piarulli
- Luisa Piarulli è esperta in Bioetica e pedagogia del territorio. Premio Curcio 2016 per la cultura pedagogica e docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, insegna scienze umane e sociali nelle scuole secondarie superiori. Past president nazionale Anpe, fa parte dell’Osservatorio nazionale infanzia e adolescenza e del Comitato scientifico dell’Associazione Pensare Oltre. Scrittrice, è editorialista per Orizzonte Scuola. Fa consulenza pedagogica nel suo studio che ama definire il suo “laboratorio pedagogico”, a Torino. Considera una missione promuovere la cultura pedagogica e il ruolo del pedagogista negli ambienti socio-educativi per contrastare la forte ondata medicalizzante che investe giovani e adulti.
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